Rendimenti obbligazionari, anche i titoli di stato possono dare soddisfazioni

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Al 10 maggio, il benchmark Global Aggregate fixed income registrava un rendimento annuo del -12,1%, con molti mercati sottostanti del reddito fisso che hanno subito perdite ancora più significative. Nemmeno le asset class con copertura della duration si sono rivelate, come molti sostenevano, la panacea all’inasprimento della politica della Federal Reserve, con rendimenti dell’investment grade in euro (rispetto ai titoli di stato) da inizio anno pari a -3,25% e dell’high yield in euro a -5,78%. Evidentemente cicli di inasprimento della politica monetaria rapidi, inattesi dal consenso e che per di più comportano una riduzione dei bilanci delle banche centrali, sono generalmente meno favorevoli per i prodotti a spread rispetto ai periodi di bassa volatilità dei tassi d’interesse e di quantitative easing. I titoli di Stato, nonostante la loro performance storicamente negativa, sono quindi i migliori tra i settori meno performanti nel panorama del reddito fisso. Tuttavia, tutto ciò è relativo.

Per scegliere la duration giusta del reddito fisso nel tempo, è necessario avere ragione su due fattori: il regime secolare e il ciclo (economico e di politica monetaria).

Oggi sul mercato ci sono opinioni divergenti ben articolate sulla questione secolare, e l’esito del dibattito è tutt’altro che scontato: i fattori demografici e i flussi di capitale internazionalizzati prevalenti negli ultimi decenni, a partire dagli anni ’80, continueranno a offrire un vento di coda benevolo? Oppure potremmo entrare in un regime di inflazione più impegnativo, simile a quello del periodo 1965-1981? Con i rendimenti obbligazionari vicini alla parte superiore del loro canale quarantennale di tendenza al ribasso – e vicini ai picchi di rendimento del 2018 dell’ultimo ciclo – la domanda è pertinente, ma potrebbe essere utile essere aperti a ogni possibile esito. Per quanto riguarda la seconda domanda, relativa alle prospettive cicliche, riteniamo che la risposta stia iniziando a diventare più chiara.

Come hanno sostenuto Larry Summers e Alex Domash, la possibilità di una recessione nei prossimi due anni è probabilmente più vicina al probabile che all’improbabile, date le condizioni iniziali di disoccupazione di fine ciclo (ora al 3,6%) e l’IPC primario più alto in oltre quarant’anni (attualmente all’8,5%). Questa combinazione è solitamente pericolosa per le espansioni economiche su un orizzonte di due anni, a causa della pressione inflazionistica più spesso associata a contesti con tassi di disoccupazione molto bassi e alla stretta di politica monetaria richiesta da un’inflazione elevata.

Un numero sostanziale di rialzi è ora prezzato nelle estremità anteriori di molte curve dei titoli di Stato globali. In alcuni mercati sono stati prezzati quasi 250 punti base, se includiamo i rialzi appena comunicati (Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e Ungheria, ad esempio), altri oltre 150-200 punti base (Corea del Sud, Norvegia, Svezia e persino l’Eurozona).

Con queste premesse, la domanda sorge spontanea: fino a che punto l’aumento dei costi di prestito crea la massima sofferenza per l’economia? Se Summers e Domash avessero ragione, bisogna considerare il verificarsi di una recessione entro la fine del 2024. Per analizzare al meglio questa possibilità ci concentriamo su quattro fattori: la performance dei rendimenti della parte anteriore della curva quando le curve dei rendimenti si invertono e i tassi di policy raggiungono il picco, la relazione tra i picchi di inflazione su base annua e i picchi dei rendimenti obbligazionari, la struttura del debito delle economie, in particolare alla luce della crescente “intensità dei tassi d’interesse”, l’andamento dei mercati obbligazionari dopo il penultimo rialzo di ogni ciclo.

Per quanto riguarda il primo aspetto, con la curva spot nominale USA 2/10 che si è temporaneamente invertita all’inizio di aprile, la nostra analisi mostra che i rendimenti a 2 anni hanno molte più probabilità di finire al di sotto dei loro forward a 12 mesi tra un anno. In altre parole, un’inversione della curva è un segnale a medio-lungo termine per acquistare la parte anteriore.

In secondo luogo, mentre l’inflazione ha continuato a sorprendere il consenso raggiungendo un picco più tardi del previsto e a livelli più elevati, gli effetti base suggeriscono una certa moderazione nella seconda metà di quest’anno, almeno negli Stati Uniti. Se gli effetti base superano le evidenti pressioni al rialzo dei salari e gli effetti secondari, questa metrica suggerisce un potenziale picco dei rendimenti nel corso dell’estate.

In terzo luogo, la maggior parte delle economie sviluppate si è indebitata ancora di più negli ultimi anni. Nel 1970 il debito delle famiglie e delle imprese statunitensi ammontava a circa il 45% del PIL. Oggi sono circa l’80% del PIL. Anche il debito pubblico era di poco inferiore al 40% del PIL nel 1970, mentre ora è triplicato fino a raggiungere il 120%. Questo è importante per il calcolo del momento in cui i cicli di rialzo della Federal Reserve si concluderanno, perché l’ammontare del debito fruttifero che deve essere ripagato diventa sostanzialmente più alto.

Infine, i rendimenti obbligazionari statunitensi tendono a raggiungere il picco in prossimità del penultimo rialzo dei tassi di ogni ciclo. L’incertezza ex ante offusca la visione attuale, ma l’interazione tra le prospettive di crescita e i progressi sul fronte dell’inflazione sarà probabilmente fondamentale.

Le operazioni cross-market offrono migliori opportunità corrette per il rischio. I mercati in cui le banche centrali hanno già inasprito significativamente i tassi rispetto ai tassi terminali nei cicli precedenti e hanno già invertito le loro curve forward (e in alcuni casi spot), hanno meno possibilità di selloff all’estremità anteriore. Per quanto riguarda la strategia della curva dei rendimenti, anche se sembra ancora troppo presto perché avvenga un irripidimento in molti mercati, il primo passo per arrivarci è quello di prendere profitto sugli appiattimenti.