BCE in difficoltà

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L’inflazione nella zona euro ha superato di recente l’8%. Per molti cittadini l’aumento dei prezzi è un grosso problema. Mantenere stabile il valore del denaro è a tutti gli effetti uno dei compiti principali di ogni banca centrale, o almeno dovrebbe esserlo. L’inflazione si sta dimostrando più tenace rispetto a quanto previsto dalle autorità monetarie solo pochi mesi fa, il che mette in difficoltà le banche centrali.

Per contrastare l’inflazione e difendere il valore del denaro, le banche centrali devono aumentare i tassi d’interesse, ovviamente senza provocare una drastica recessione. L’impresa è tutt’altro che semplice, perché oltre alla guerra in Ucraina e al rapido aumento dei prezzi dell’energia, a mettere a repentaglio la crescita economica sono anche le strozzature nelle catene di fornitura globali e il rallentamento dell’economia cinese.

La Federal Reserve statunitense (Fed) è molto più attiva dei colleghi nell’Eurozona, con il suo secondo rialzo dei tassi d’interesse, questa volta pari a 0,5 punti percentuali e quindi di entità doppia rispetto agli aumenti consueti, la Fed ha portato i tassi di riferimento a un intervallo compreso tra lo 0,75% e l’1,0%. Ulteriori interventi annunciati in tal senso e una riduzione degli investimenti in obbligazioni preannunciano la fine di una politica monetaria ultra-accomodante. Resta comunque da vedere se queste misure basteranno a combattere efficacemente l’inflazione.

L’inflazione ha molte cause. Noi le definiamo spesso le “tre D”: deglobalizzazione, demografia e decarbonizzazione. Vale forse la pena volgere uno sguardo al passato. Negli anni ‘80, l’inflazione negli USA è arrivata al 15%. L’allora presidente della banca centrale Paul Volcker alzò il tasso di riferimento temporaneamente anche al 20%. Nelle circostanze attuali, una politica monetaria simile sarebbe destinata a fallire. Non è tutto: per la Banca Centrale Europea (BCE) la situazione è molto più complessa che negli USA. Perché la nostra banca centrale non deve solo difendere il valore del denaro, ma deve anche tenere unito l’euro.

La Presidente della BCE Christine Lagarde ha recentemente annunciato la fine degli acquisti netti di titoli, che verrà probabilmente decisa a giugno. Quindi ad agosto ci lasceremo probabilmente alle spalle i tassi di deposito negativi, ma è improbabile ciò abbia un impatto significativo sull’inflazione. Inoltre, il rendimento dei titoli di Stato decennali italiani è tornato a superare la soglia del 3% e potrebbe continuare a salire con la fine degli acquisti di obbligazioni.

Per il momento non si rischia ancora una crisi dell’euro, tuttavia, vista l’immensa montagna di debiti, l’Italia non può permettersi tassi d’interesse molto più elevati nel lungo periodo. Se a un certo punto la BCE fosse costretta ad acquistare titoli di Stato italiani per scongiurare una crisi finanziaria, perderebbe chiaramente di credibilità come custode della stabilità monetaria.

Nei prossimi mesi, il mercato sarà probabilmente influenzato dall’andamento dell’inflazione e dall’impatto economico delle strozzature nelle forniture. Per le aziende, questo ha naturalmente implicazioni molto concrete. Devono compensare i maggiori costi di input con un corrispondente incremento dei prezzi. Per farlo, però, devono avere un potere di determinazione dei prezzi che in genere è peculiarità delle aziende di successo. Come investitori, noi cerchiamo proprio le azioni di quelle società, a condizione che il prezzo sia adeguato.

Di recente ci sono state notevoli fluttuazioni dei prezzi in borsa, ma gli investitori orientati al lungo termine non dovrebbero lasciarsi turbare, visto che dopotutto queste oscillazioni offrono anche delle opportunità. Ad esempio quando singoli segmenti di mercato vengono indebitamente puniti, come nel caso delle recenti svalutazioni, talvolta significative, che hanno riguardato anche azioni di società di prim’ordine del settore tecnologico.