La frammentazione in Europa non è una novità

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Il tema della frammentazione è già stato ampiamente discusso nel contesto della liquidità dei sistemi bancari post Grande Crisi Finanziaria. L’alta eterogeneità delle economie degli Stati Membri dell’Unione era la prima causa delle difficoltà di trasmissione dei quanti di politica monetaria, nonché della capacità dell’Eurosistema di ammortizzare gli shock di liquidità che potevano manifestarsi durante il periodo di riserva. Come sappiamo, la frammentazione non si fermò alle banche, ma divenne un problema anche per i governi, per le aziende e le famiglie. Durante un suo intervento del 2013, l’allora membro dell’Executive Board della BCE, Benoit Coeure, definiva due dimensioni di frammentazione: 1) Un danno al tradizionale meccanismo di arbitraggio intertemporale, e 2) Un danno a livello “orizzontale”, cioè attraverso la struttura dei mercati e del sistema bancario dei vari Paesi Membri, esacerbato dal cosiddetto “nexus” tra banche e governi (i.e. l’esposizione del sistema bancario ai titoli governativi, in larga parte dovuta alla transizioni in un regime di Basilea III che richiede ingenti buffer di liquidità in asset liquidi e sicuri).

Più recentemente, il vice presidente della BCE, Luis de Guindos, ha nuovamente definito “frammentazione” come un problema di trasmissione di politica monetaria, precisando al contempo che uno sforzo per limitare la frammentazione non deve “interferire con l’orientamento della politica monetaria”. Più precisamente, la BCE si dovrebbe concentrare su una frammentazione di origine esogena, che però non sia idiosincratica. L’esempio più recente è quindi l’utilizzo del PEPP come strumento flessibile per contenere la frammentazione generale causata da un evento esogeno come il Covid.

Ma veniamo al comunicato della BCE di questa settimana, che farebbe presagire la presenza di un rischio di frammentazione, anche se diversi membri della BCE hanno subito precisato che al momento non c’è né fretta né tantomeno panico. A mio parere uno strumento disegnato per prevenire la frammentazione fa necessariamente parte dell’arsenale di una banca centrale, che come la BCE si confronta con una unione monetaria altamente eterogenea. Resta da capire in modo la complessità operativa e legale di un tale strumento possa limitarne la portata. Resta anche da capire, come l’utilizzo di uno strumento simile sia consistente con un mercato in cui aumentano i tassi di interesse per necessità (endogena) della politica monetaria e – di riflesso – aumentano anche gli spread dei singoli Paesi Membri, chi più e chi meno in funzione dei fondamentali sottostanti.

Concludo con una osservazione: nel corso degli anni la BCE ha acquistato obbligazioni governative in diversi scenari macro e di mercato. Inflazione/disinflazione, crescita/recessione, spread larghi/stretti, tassi positivi/negativi, crisi bancaria, crisi politica, crisi sanitaria, guerra eccetera. Nel contempo, i governi degli Stati Membri hanno varato politiche fiscali non sempre frugali. Per esempio, a fine 2021 la BCE deteneva 429 miliardi di Euro di bond governativi italiani, acquistati durante il programma PSPP che ebbe inizio a marzo 2015. Durante lo stesso periodo, il debito pubblico italiano è aumentato di 475 miliardi. Peggio ha fatto la Francia, il cui debito è aumentato di 773 miliardi a fronte di 516 miliardi di acquisti della BCE. Ma esistono anche esempi virtuosi come quello dei Paesi Bassi, che sono riusciti addirittura a ridurre il debito pubblico di 7 miliardi con 127 miliardi di acquisti da parte di Francoforte. Mi sembra che col tempo il QE sia entrato sempre più nel DNA dell’Eurozona…