Il futuro di quota 100

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Governo e Sindacati stanno proseguendo il proprio confronto sui temi previdenziali per giungere alla elaborazione, nel breve, di misure da inserire nella prossima Legge di bilancio  (sembra certa la proroga di un ulteriore anno dell’Ape sociale e di opzione donna)  e, nel medio-termine, di una nuova riforma che in maniera strutturale preveda una pensione di garanzia per i giovani che rientrano nell’applicazione integrale del metodo di calcolo contributivo  e di un rilancio della previdenza complementare.

La “madre di tutti gli interventi” è poi quello testo alla elaborazione di una nuova soluzione di flessibilità in uscita che sostituisca quota 100 al termine della naturale sperimentazione che è fissato per fine 2021.

Diverse sono le ipotesi in fase di approfondimento, da una quota 102 (64 anni di età e 38 di contributi) a quota 41 rafforzata per i lavoratori usuranti.

Sui ragionamenti in corso pesano però anche le considerazioni tecniche di Ragioneria Generale dello Stato  e Corte dei Conti, acuite poi dagli effetti della crisi da Covid 19. Partendo dalla RGS nelle Tendenze di medio-lungo periodo della spesa pensionistica da poco pubblicata si evidenzia come la spesa in rapporto al PIL raggiunge un’incidenza del 17% nel 2020 per ripiegare su un livello pari al 16.4% nel 2021. In seguito, il rapporto riprende ad aumentare fino al 2023, raggiungendo il valore di 16,6% del PIL, principalmente sulla scorta dell’aumento della spesa media rispetto alla produttività per occupato.

Negli anni immediatamente successivi al 2023 il rapporto decresce leggermente fino al 16,2% nel 2029 grazie all’esaurirsi, dal lato della spesa, degli effetti del nuovo canale di accesso al pensionamento anticipato introdotto in via generalizzata e temporanea per i soggetti che maturano i relativi requisiti nel triennio 2019-2021 (Quota 100) sia dall’ipotizzato parziale recupero dei livelli occupazionali precedenti l’adozione del provvedimento e lo scoppio della crisi sanitaria. Inoltre, si assiste alla prosecuzione graduale del processo di innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento e alla contestuale applicazione, pro rata, del sistema di calcolo contributivo.

Successivamente il rapporto spesa/PIL aumenta velocemente fino a raggiungere il picco relativo del 16,6% nel 2042. Negli anni successivi, il rapporto tra spesa pensionistica e PIL inizia una rapida discesa che tocca il livello del 15,6% nel 2050 per attestarsi infine al 13,2% nel 2070.

Andando alla Corte dei Conti , nel proprio Rapporto sulla gestione finanziaria dell’Inps sottolinea come le previsioni per il 2019 del Def, sempre elaborate sulla base della normativa vigente e del quadro macroeconomico tendenziale di riferimento, mostrano un aumento della spesa per pensioni del 3,2 per cento nel periodo 2020-2021 e +2,5 per cento e 20,7 per cento del Pil nel 2022, tenendo conto di Quota 100 e delle altre misure correttive della riforma Fornero.

Ciò premesso, osserva la Corte, in un sistema pensionistico a ripartizione ed in cui la maturazione del diritto a pensione prescinde dal regolare versamento dei contributi nel corso della vita lavorativa, va verificata la sostenibilità della spesa nel lungo periodo e agli effetti che sulla adeguatezza delle prestazioni produrranno le azioni normative poste in essere nel presente, vanno altresì considerate le conseguenze di dette azioni sulla sostenibilità del modello da parte del sistema produttivo, sia con riguardo al contributo richiesto alla fiscalità generale, che nei confronti dei soggetti tenuti al versamento della contribuzione.

In un sistema previdenziale che eroga ancora gran parte delle prestazioni ad elevata componente retributiva, peraltro, misure ampliative della spesa attraverso l’anticipo dell’età di pensionamento rispetto a quella ritenuta congrua con l’equilibrio attuariale e intergenerazionale, il blocco dell’indicizzazione dell’età di uscita dal lavoro alla speranza di vita e la reintroduzione del sistema delle finestre (, comportano sia esigenze di cassa immediate (tipiche, come detto, di un meccanismo a ripartizione), sia debito implicito, in quanto la componente retributiva del trattamento non viene corretta per tener conto della maggiore durata della prestazione.