Il ritratto del Bel Paese tratteggiato dall’Istat

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L’ Istat ha presentato il consueto Rapporto annuale che tratteggia il ritratto aggiornato del nostro Paese.

In premessa l’Istat ha evidenziato come dopo lo shock della pandemia, con una caduta del Pil senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale, la ripresa è stata rapida e robusta. Anche grazie al miglioramento delle condizioni sanitarie il Paese si apprestava a rivivere gradualmente la propria normalità. Tuttavia se già nella seconda parte del 2021 si erano manifestati alcuni deboli segnali di tensione per l’economia, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si sono creati nuovi e importanti ostacoli e sono emersi numerosi elementi di incertezza sia per le imprese, sia per quei cittadini che speravano in un rapido percorso verso un futuro migliore. Benché le misure adottate dal Governo siano state, come era accaduto durante la pandemia, puntuali e mirate, la ripresa è stata messa a rischio dal sovrapporsi di diversi fattori, dal prolungarsi della guerra, alla crescente inflazione, agli effetti dei cambiamenti climatici, all’acuirsi delle diverse forme di disuguaglianza, che purtroppo rappresentano una pesante eredità del passato biennio.

Le considerazioni demografiche:  con 16 milioni di contagi e oltre 160 mila decessi associati alla diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 tra marzo 2020 e aprile 2022, l’Italia è stata, con la Spagna, fra i paesi Ue maggiormente colpiti, soprattutto nella prima fase. Nel confronto con il quinquennio prepandemico 2015-2019, l’eccesso di mortalità registrato è stato particolarmente elevato nel 2020, specialmente tra la popolazione anziana e in condizione di fragilità, mentre già nel corso del 2021 l’avvio della campagna vaccinale ha avuto un impatto positivo nel contrastare la diffusione della malattia e nel ridurre la mortalità ad essa associata.

L’eccesso di mortalità registrato nel 2020 è stato accompagnato dal dimezzamento dei matrimoni e dalla forte contrazione dei movimenti migratori. La nuzialità ha mostrato segnali di ripresa nel 2021 e, ancor più nei primi mesi del 2022, non riuscendo tuttavia a tornare ai livelli del 2019.

Il calo dei matrimoni, e la conseguente diminuzione di nuovi coniugi, ha ristretto il numero di potenziali genitori, il che, in un Paese dove la natalità deriva ancora prevalentemente da coppie coniugate, lascia intendere possibili ripercussioni negative sulle nascite anche nei prossimi anni.

Durante il 2020 gli effetti negativi sulla natalità – almeno quelli riconducibili alla pandemia – si sono visti unicamente negli ultimi due mesi, in relazione alla forte caduta dei concepimenti nel bimestre marzo-aprile 2020. Il crollo della frequenza di nati si è però protratto in modo più marcato nei primi sette mesi del 2021, per poi dare segni di rallentamento verso la fine dell’anno.

Tuttavia i primi dati provvisori del 2022 mostrano una nuova repentina spinta al ribasso. Di fatto nel primo trimestre di quest’anno si contano circa diecimila nati in meno rispetto allo stesso periodo del biennio pre-pandemico 2019-2020. Tutto ciò mentre nel panorama europeo vi sono Paesi che hanno registrato incrementi di natalità particolarmente significativi, anche rispetto agli andamenti pre-pandemici.

L’ampliarsi del deficit tra nascite e decessi – già avviato da quasi un trentennio – associato alla più recente contrazione del saldo migratorio ha innescato, con continuità a partire dal 2014, una fase di calo della popolazione, accentuato dagli effetti della pandemia, che si è accompagnato a profonde trasformazioni nella sua struttura per età.

Al 1°gennaio 2022, secondo i primi dati provvisori, siamo scesi a 58 milioni 983 mila residenti: 1 milione 363 mila in meno nell’arco di 8 anni.

Alla stessa data ci sono 188 persone di almeno 65 anni per ogni 100 giovani con meno di 15 anni e secondo le stime più recenti si raggiungerà il picco del 306 per cento al 1° gennaio 2059.

L’evoluzione della natalità nel tempo è fortemente condizionata, oltre che dal minor numero delle donne in età fertile e dall’intensità delle loro scelte riproduttive, anche dal “calendario” con cui tali scelte si manifestano.

Rispetto al 1995, l’età media al parto è aumentata di oltre due anni, arrivando a 32,2 nel 2020. Nello stesso periodo cresce, di oltre tre anni, l’età media materna alla nascita del primo figlio (che sale a 31,4 anni

Profondi cambiamenti sono avvenuti anche nelle forme familiari negli ultimi 20 anni. È aumentato il numero di famiglie, stimate a 25,6 milioni nel 2020-2021, ed è diminuito il numero medio di componenti, da 2,6 a 2,3, per la forte crescita delle famiglie costituite da persone che vivono da sole.

Secondo le più recenti previsioni, all’interno di una popolazione che prosegue la sua tendenza a diminuire e a invecchiare, il numero di famiglie sembra destinato ad aumentare, raggiungendo i 26,2 milioni nel 2040, ma con un numero medio di componenti ancora in calo, da 2,3 a 2,1, e con una progressiva frammentazione.

La sindrome del ritardo:  nei percorsi di formazione e di sviluppo delle unità familiari, si recepisce il continuo spostamento in avanti di tutte le tappe cruciali dei percorsi di vita, a cominciare dall’uscita dei giovani dalla famiglia di origine. L’Italia è da tempo tra i paesi europei dove il rinvio delle tappe di transizione allo stato adulto è più accentuato e, conseguentemente, è più alta la quota di giovani di 18-34enni che vivono con almeno un genitore, quasi sette su dieci, ben al di sopra della media europea che si ferma a uno su due

Senior e non autosufficienza:  le profonde trasformazioni demografiche e sociali in atto nel Paese investono anche la popolazione anziana, delineando nuove potenzialità nelle condizioni di salute e nella qualità della vita, ma anche nuovi bisogni.

I residenti con 65 anni e più sono oltre 14 milioni a inizio 2022, sono 3 milioni in più rispetto a venti anni fa; fra vent’anni saranno quasi 19 milioni. Gli anziani con almeno 80 anni oggi superano i 4,5 milioni e quelli con almeno cento anni raggiungono le 20 mila unità, essendosi quadruplicata negli ultimi 20 anni.

Tra vent’anni avremo quasi 2 milioni di persone in più con almeno 80 anni, e la popolazione con almeno cento anni sarà triplicata.
Gli indicatori condivisi a livello europeo e internazionale che indagano sul livello di autonomia nello svolgere le attività essenziali della cura di sé nella vita quotidiana e quelle della vita domestica evidenziano l’elevata eterogeneità dei livelli di autonomia delle persone anziane.

Tra i “giovani anziani” di età compresa tra 65-74 anni, sette su dieci sono completamente autonomi, mentre dopo gli 85 anni tale quota crolla al 13 per cento. In termini assoluti circa 6,4 milioni di persone non riescono a condurre una vita in piena autonomia, avendo moderate o gravi difficoltà nelle attività di cura personale o di cura della vita domestica. Ad avere una riduzione grave dell’autonomia sono 3,8 milioni.

Si tratta in gran parte di donne, con un’età media di 82 anni. La famiglia conferma il ruolo chiave nel prestare assistenza agli anziani con ridotta autonomia.

Ma le trasformazioni familiari in atto lasciano aperto il dubbio sul fatto che un sistema di reti familiari sempre più indebolito possa riuscire a far fronte a una domanda di welfare che, stante la rapidità e l’intensità del processo di invecchiamento della popolazione, è da prevedere costantemente in crescita.

Livelli retributivi:  sono circa 4 milioni i dipendenti del settore privato (con l’esclusione dei settori dell’agricoltura e del lavoro domestico) che percepiscono una retribuzione teorica lorda annua inferiore a 12mila euro (sono a bassa retribuzione annua) mentre per circa 1,3 milioni di dipendenti – il 9,4% del totale – la retribuzione oraria e’ inferiore a 8,41 euro l’ora (sono a bassa retribuzione oraria.

Tra questi, quasi 1 milione percepiscono meno di 12mila euro l’anno e meno di 8,41 euro l’ora. Si tratta, secondo l’Istat, di una quota pari al 29,5% del totale.

I lavoratori a bassa retribuzione oraria (inferiore a 8,41 euro lordi) sono piu’ spesso giovani fino a 34 anni, donne, stranieri (soprattutto extra-Ue), con basso titolo di studio e residenti nel Sud. Se in molti casi si tratta di giovani ancora nella famiglia di origine, non e’ infrequente che siano genitori soli o in coppia

La nuova normalità: l’emergenza sanitaria ha modificato le abitudini della popolazione, con un impatto rilevante sui vari aspetti della quotidianità: sull’organizzazione della giornata, sugli stili di vita, sul modo in cui sono state coltivate le relazioni parentali e amicali, sul tempo libero, sul lavoro. Alcuni  cambiamenti negli stili di vita sembrano persistere e potrebbero durare nel tempo..
Un effetto positivo dell’emergenza sanitaria e’ stata “l’accelerazione nell’utilizzo delle tecnologie digitali anche a parte delle imprese.

Le tre aree di digitalizzazione piu’ influenzate dalla pandemia sono state quelle del lavoro da remoto (o agile), del commercio elettronico e della digitalizzazione dei processi aziendali, inclusa l’automazione.

A gennaio 2020, in media, lavorava da remoto circa il 3,7% del personale delle imprese con almeno tre addetti mentre “tale incidenza e’ salita al 19,8% nel bimestre marzo-aprile 2020 per giungere, a fine 2021, a un livello di diffusione medio piu’ che doppio”. In particolare sono state le grandi imprese (almeno 250 addetti) del Nord-ovest a utilizzare piu’ intensivamente questa modalita’ nel settore privato.