Trump vs Biden, quanto pesano dati macro, mercato del lavoro e politica monetaria

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In un contesto in cui gli ostacoli verso il risanamento dell’economia sono significativi, l’utilità dei dati macro si rivelerà solo parziale nella fase di avvicinamento alle presidenziali. I primi due pacchetti di sgravi fiscali bi-partisan per l’anno delle elezioni, quasi 3 miliardi di dollari in totale (cioè circa il 14% del PIL), non sono stati senza precedenti, ricordando il caso del 2008 quando un presidente repubblicano e un parlamento democratico approvarono un pacchetto di 152 miliardi di dollari (1% del PIL). Ma con un pacchetto da 2 trilioni di dollari, e il tasso di gradimento di Trump basso e stabile su base storica (40-45%), la rielezione del 3 novembre potrebbe aver bisogno di lui per attrarre di nuovo i centristi, o intensificare le politiche di unità nazionale che tengono insieme la sua base.

Quest’ultimo approccio sarebbe probabilmente in contrasto con quello del candidato democratico Biden, che, sebbene difficilmente sosterrà l’abolizione unilaterale delle restrizioni commerciali esistenti, potrebbe affrontare il tema con uno spirito più collaborativo. Questo potrebbe passare anche attraverso una maggiore collaborazione con gli alleati per aiutare a ridimensionare Pechino, attenuando, anche se non eliminando, i rischi del protezionismo globale che ci portano a mantenere una certa cautela per quanto riguarda la crescita del PIL mondiale. Resta però da capire l’incidenza di Biden, data la necessità di attingere (o conservare) la base centrale di Trump, e quanto velocemente possa essere in grado di ricostruire la fiducia degli alleati negli Stati Uniti in materia di politiche commerciali e cambiamento climatico, seguendo un approccio autonomo e facilmente tracciabile proprio della politica estera di Trump.

Finora, Biden, il candidato più “intermedio”, sembra non avere un’agenda radicale, suggerendo che le due differenze immediate e più ampie si focalizzeranno sulle politiche commerciali e fiscali. Se così fosse, gli asset growth potrebbero inizialmente accogliere bene una vittoria di Trump, data l’implicita continuità della politica, l’allentamento fiscale e il tono accomodante della Fed. A lungo termine, tuttavia, l’inclinazione potrebbe venir meno se le politiche di intonazione egoistica a livello globale venissero rafforzate (il nostro scenario più probabile). Dal punto di vista fiscale, anche dopo i pacchetti record, nessuno dei due candidati esprime l’urgenza di una correzione che ne porti alla conclusione: nel breve periodo, entrambe le parti sono a favore di un ulteriore allentamento. Come parte del terzo pacchetto di misure di sostegno, i Democratici hanno approvato alla Camera un disegno di legge di 3 trilioni di dollari per estendere i sussidi di disoccupazione extra e aumentare i finanziamenti statali spingendosi più oltre rispetto al disegno di legge dei Repubblicani di 1 trilione di dollari, che estenderebbe sì i sussidi, limitandone però l’importo (200 dollari a settimana, contro i 600 dollari).

Tuttavia, l’impegno di Biden ad aumentare più avanti sia le principali aliquote d’imposta sulle società (dal 21% al 28%) sia le principali aliquote d’imposta sulle persone fisiche (dal 37% al 39,6%) lo fanno apparire più hawkish. Stime indipendenti suggeriscono un aumento dei ricavi provenienti da queste modifiche pari a 3,6 miliardi di dollari nell’arco di un decennio che, di fatto, riprenderebbero di fatto lo “stimolo” di quest’anno, se fossero attuati a partire dal 2021, con un impatto sul PIL a lungo termine fino a 1,5% (senza prendere in considerazione gli effetti di ridistribuzione). L’approccio di Biden, quindi, contrasta con le campagne di taglio delle tasse del 2000 e del 2016. Tuttavia, l’impatto della sua politica fiscale dipenderà da come vengono spesi o assegnati i nuovi introiti ed il suo programma più populista di “riallineamento fiscale” per ridistribuire il reddito potrebbe giocare politicamente a suo favore. Biden, tuttavia, diffiderà della necessità di avere un minimo di 51 seggi per esercitare un impatto politico e, soprattutto vista la sfida di ripristinare i sei anni di crescita del Pil insieme ai quattro anni di guadagni sui consumi persi a causa del virus.

Per fortuna, i dati sul mercato del lavoro – che si sono avvicinati ai livelli degli Anni ’30 – stanno diventando meno pesanti sulla scia del ritorno degli operai in licenza. Il mese di aprile (il mese più colpito), con 20,8 milioni di payroll, è stato spazzato via rispetto ai dati di agosto che hanno registrato un aumento di 1,4 milioni. Tuttavia, anche se i posti di lavoro possono continuare a essere recuperati a questo ritmo, ci vorranno ancora nove mesi – verosimilmente dopo le elezioni – per il ritorno dei 12 milioni di lavoratori fermi da febbraio. Ciò sulla base di un percorso di piena reintegrazione senza ulteriori periodi di lockdowon, e il ritorno dei milioni di lavoratori scomparsi dalla forza lavoro, ma non registrati come disoccupati. Il tasso di “sottoccupazione” che include coloro che non hanno sì intenzione di lavorare ma non sono alla ricerca di lavoro (oltre il 14% contro il 7% di febbraio), potrebbe diminuire più lentamente. E come sappiamo dal 2007 al 2009, la rapida perdita di posti di lavoro non garantisce recuperi più rapidi. In teoria, ormai perseguendo un obiettivo di inflazione medio, piuttosto che fisso, la Fed può permettersi di andare oltre il proprio target del 2% prima di inasprire i tassi consentendo di fatto un più ampio margine di manovra per il recupero. La sfida, tuttavia, potrebbe essere quella di far sì che l’inflazione arrivi a quel punto, date le forze disinflazionistiche che marciano ancora in senso opposto, tra cui la lentezza della ripresa del mercato del lavoro, della produttività e, all’interno di una trappola di liquidità, l’insensibilità della crescita all’attuale contesto di tassi bassi. Per questo e per altri motivi (ad esempio, le basse aspettative di inflazione), la politica macroeconomica dovrà continuare ad essere eccezionalmente accomodante.