Dazi USA ed export italiano: il -3% di novembre è un segnale, ma ci sono differenze regione per regione
A novembre 2025 le esportazioni italiane verso gli Stati Uniti sono scese del 3% rispetto a novembre 2024, secondo l’ultimo comunicato Istat sul commercio extra-UE. Un dato che, da solo, non certifica una “caduta libera” dell’export italiano, ma che si inserisce in una fase più nervosa e discontinua iniziata dopo l’estate: volumi, prezzi, composizione merceologica e “effetti commessa” (soprattutto nei beni ad alto valore) possono muovere molto le statistiche mensili. Resta però un punto: quando aumenta il costo d’accesso al mercato americano, la vulnerabilità si concentra dove la dipendenza dagli USA è più alta.
Il contesto è quello delle nuove tariffe statunitensi “al 15%” concordate nel perimetro delle tensioni commerciali tra UE e USA, con entrata in vigore ad agosto e discussione politica già esplosa a luglio. È in quel passaggio che molte analisi italiane hanno iniziato a stimare l’impatto potenziale sul Made in Italy, sottolineando come l’effetto non sia uniforme: pesa di più sulle filiere con minore capacità di assorbire margini, sulle imprese piccole e sui distretti più esposti.

Dove colpisce di più: le regioni più esposte alle tariffe USA
Se la domanda è “quali aree geografiche rischiano di soffrire di più”, la risposta passa dalla mappa dell’export regionale verso gli Stati Uniti. Un approfondimento CNA (luglio 2025) fotografa la concentrazione: gran parte delle vendite italiane negli USA si addensa nel Nord, con un ruolo dominante di alcune regioni manifatturiere. In queste aree, ogni frenata americana tende a propagarsi più velocemente lungo le catene di fornitura (subfornitura, componentistica, packaging, logistica).
Accanto alla dipendenza diretta (chi esporta negli USA), c’è poi la dipendenza indiretta, cioè la parte di fatturato che dipende da clienti italiani che a loro volta vendono oltreoceano. È un punto chiave perché spiega perché anche territori non “capofila” possano subire contraccolpi: la rete produttiva amplifica lo shock. Un’analisi della Banca d’Italia (Questioni di Economia e Finanza n. 993) stima infatti che i legami di fornitura domestici aumentano sensibilmente l’esposizione complessiva al mercato statunitense, con forti differenze tra imprese e tra sistemi locali.
Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto: non solo volumi, ma filiere
Nel blocco delle regioni più esposte, la Lombardia merita un capitolo a parte: non solo per l’ammontare delle esportazioni verso gli USA, ma perché ospita filiere ad alta intensità tecnologica e una fitta rete di fornitori. In uno studio dedicato, Assolombarda ricordava il peso del mercato statunitense per l’export lombardo e provava anche a quantificare il rischio potenziale in scenari di dazi, evidenziando la sensibilità di alcuni comparti e territori.
Emilia-Romagna e Veneto condividono una vulnerabilità simile: distretti manifatturieri e agroalimentari spesso orientati all’export “premium”, dove il prezzo finale conta e l’elasticità della domanda può aumentare quando il dazio si somma a cambio e costi logistici. CNA, nelle sue valutazioni, insiste proprio su questo: tariffe più alte colpiscono in modo asimmetrico le imprese piccole e micro, che hanno meno leve per riorganizzare mercati e listini.
Centro-Sud: esposizione mediamente più bassa
Nel Centro-Sud l’esposizione diretta media agli USA tende a essere più contenuta rispetto al Nord industriale, ma non mancano aree “sensibili” legate a specializzazioni di nicchia (moda, alimentare, alcune lavorazioni meccaniche) o a imprese che esportano tramite grandi player del Nord (canale indiretto). È qui che l’approccio “a filiera” diventa decisivo: una caduta degli ordini americani può comprimere la domanda di componenti e semilavorati anche lontano dai porti e dai quartier generali dell’export.
Perché il -3% di novembre conta
Il dato ISTAT di novembre va letto come un campanello: segnala che, dopo mesi di volatilità, la direzione può diventare meno favorevole. Ma la fotografia completa richiede di guardare più mesi e soprattutto la composizione settoriale (beni strumentali vs beni di consumo; agroalimentare vs meccanica; farmaceutica ecc.), perché sono i mix merceologici a determinare chi paga davvero il conto.

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