UBP – Come il governo USA potrebbe ridurre la leva finanziaria della sua economia

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Nel 2023 il rapporto tra il debito pubblico e il PIL statunitense ha raggiunto il 120%, tornando al livello raggiunto nel 1945 dopo anni di spese belliche.

Sebbene la lunga storia di sregolatezza fiscale americana senza incidenti sia di conforto per gli investitori, una ricerca del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha sottolineato come tale sovraindebitamento sia stato “[…] alla base di molte […] crisi vissute dai Paesi membri” che hanno richiesto l’intervento del FMI.

Nel caso degli Stati Uniti, lo stesso FMI e i funzionari statunitensi vedono nel crescente onere del debito americano una fonte di preoccupazione. Il direttore del Congressional Budget Office statunitense, apartitico, a febbraio ha avvertito che “[…] l’aumento dei costi degli interessi […] rappresenta un rischio per la stabilità economica [degli Stati Uniti]”: l’attuale spesa del Tesoro statunitense per gli interessi ha, infatti, raggiunto il 15% delle entrate fiscali, livelli visti per l’ultima volta all’inizio degli anni ’80, dopo la generosità fiscale dell’ex presidente statunitense Reagan.

In genere, in questi casi, i programmi prescritti dal FMI si sono concentrati su “forti tagli alle spese” e su “riforme strutturali”.

Un’analisi del 2023 dell’apartitico Committee for a Responsible Federal Budget evidenzia la sfida politica ed economica rappresentata dalla riduzione del deficit statunitense. Il Comitato stima che per raggiungere il pareggio sarebbe necessario un taglio generalizzato del 27% della spesa federale statunitense.

Date le attuali divisioni politiche, è improbabile che un Congresso americano diviso approvi drastici tagli di bilancio o aumenti delle tasse di tale portata da risolvere il problema dell’America. Gli investitori dovrebbero comunque aspettarsi cambiamenti nella politica fiscale – per quanto modesti rispetto ad alcune delle dure austerità fiscali imposte dai programmi del FMI – una volta concluse le elezioni di novembre.

Oltre a ciò, l’attuale Presidente degli Stati Uniti Joe Biden sembra voler prendere spunto dalla strategia degli anni Novanta di Clinton. Sebbene allora il gettito fiscale e i “dividendi di pace” che sono seguiti alla Guerra Fredda siano stati determinanti per la riduzione del deficit, il boom della produttività degli anni ’90, guidato dalle tecnologie informatiche e dall’outsourcing, ha contribuito a guidare la crescita e a raggiungere la stabilità finanziaria.

La nuova politica industriale degli Stati Uniti, codificata negli US Infrastructure, CHIPS e Inflation Reduction Acts del 2022, sembra aver dato il via alle prime fasi di un boom degli investimenti, non dissimile da quello degli anni ’80 che ha portato al boom della produttività degli anni ’90. I ritardi di tali investimenti tendono a essere lunghi, ma dopo oltre un decennio di debole crescita degli investimenti fissi in seguito alla crisi finanziaria globale, le nuove politiche sembrano destinate a recuperare la crescita della produttività a medio termine dell’economia nazionale.

Pertanto, poiché è probabile che alla politica fiscale vengano apportate solo moderate modifiche bipartisan e che i benefici della politica industriale del 2022 si realizzeranno probabilmente solo verso la fine del decennio, le autorità statunitensi dovranno ricorrere a strumenti aggiuntivi per guadagnare tempo, sia per garantire la sostenibilità del debito sia per contribuire alla riduzione della leva finanziaria del bilancio sovrano.

La Federal Reserve statunitense sembra aver già iniziato a utilizzare uno di questi strumenti, rallentando il ritmo della liquidazione dei titoli del Tesoro da parte della banca centrale statunitense. Ricordiamo che il 1° maggio il Federal Open Market Committee ha dichiarato di voler ridurre il roll-off dei propri titoli di Stato da 60 miliardi di dollari a 25 miliardi di dollari al mese, portando a un’ulteriore domanda di 420 miliardi di dollari all’anno per il debito pubblico statunitense da parte della stessa Fed.

Questa domanda dovrebbe aiutare i politici americani ad attuare un’altra strategia, mantenendo i rendimenti dei Treasury al di sotto del tasso di crescita del PIL nominale. Ricordiamo che durante la crisi del debito sovrano dell’euro, con l’Italia vicina alla deflazione e con una scarsa crescita reale, gli acquisti di obbligazioni da parte della Banca Centrale Europea hanno contribuito a far convergere i rendimenti italiani con la crescita del PIL nominale, evitando che il rapporto debito/PIL italiano aumentasse troppo rapidamente e aiutando la nazione a scampare al destino che ha travolto il suo vicino a est, la Grecia.

Nonostante l’indice dei prezzi al consumo rimanga al di sopra del 3%, il recente cambio di rotta della politica americana fa sorgere il rischio, in prospettiva, che anche l’inflazione elevata entri a far parte degli obiettivi politici in qualità di driver per mantenere elevata la crescita del PIL nominale. Tuttavia, anche in questo caso, gli Stati Uniti devono essere cauti, poiché la previdenza sociale e Medicare sono entrambe spese significative indicizzate all’inflazione, il che limita i potenziali benefici della riduzione della leva finanziaria per l’economia.

Per gli investitori obbligazionari, la priorità dovrebbe essere gestire il rischio che la situazione attuale si sviluppi in modo disordinato. Di conseguenza, con la prospettiva di una volatilità dei tassi d’interesse più elevata rispetto a quella sperimentata tradizionalmente, è preferibile concentrarsi sulle strategie che generano reddito (cioè, di carry) rispetto a posizionare il portafoglio su una duration moderata o anche di long-duration. Inoltre, con la prospettiva che un’inflazione superiore al target continui a essere un obiettivo politico, i titoli protetti dall’inflazione dovrebbero offrire un riparo agli investitori mentre le autorità statunitensi affrontano il loro eccesso fiscale nei prossimi anni.