La flessione dei dati macro in Europa potrebbe essere di breve durata
Le elezioni sembrano aver generato uno shock positivo del sentiment nell’economia statunitense e questo si riflette nei dati sull’attività che sono per lo più sorprendentemente al rialzo: fiducia dei consumatori ai massimi da 16 mesi, con la componente delle aspettative a livelli che non si vedevano da quasi 3 anni; richieste iniziali di disoccupazione molto basse; rimbalzo dei PMI; sensibile aumento dei mutui per l’acquisto di abitazioni.
Nonostante questo miglioramento dei dati macro, il tasso del Tesoro a 10 anni ha chiuso novembre sotto il 4,20% e quindi a livelli che difficilmente possono essere considerati restrittivi. Al contrario, e nonostante l’apprezzamento del dollaro, la verità è che le condizioni finanziarie rimangono eminentemente accomodanti. Stando così le cose, e considerando anche i solidi fondamentali di cui continuano a godere i consumi privati negli Stati Uniti, non vediamo motivo di pensare che l’economia statunitense possa perdere slancio in modo apprezzabile nei prossimi trimestri.
Con la Fed chiaramente intenzionata a continuare ad abbassare i tassi d’interesse fino a quando la politica monetaria non diventerà neutrale, la domanda chiave in questo momento è quale possa essere una stima ragionevole di tale tasso neutrale. A nostro avviso, ci sono due fattori che indicherebbero un tasso neutrale relativamente alto, forse nell’intervallo del 3,5-4%. Da un lato, la forza che l’economia americana continua a mostrare, suggerisce che la politica monetaria potrebbe essere solo moderatamente restrittiva.
D’altro canto, il fatto che, nonostante le aspettative sui prezzi rimangano ben ancorate e l’inflazione di fondo rimanga nettamente al di sopra dell’obiettivo del 2%, è un segnale che indica, ancora una volta, che la domanda aggregata rimane forte rispetto all’offerta potenziale. Ebbene, sulla base di questa stima neutrale dei tassi, crediamo che la Fed potrebbe attuare un taglio di 25pb a dicembre e la fine dell’attuale ciclo di ribasso nel primo trimestre del 2025, con un tasso di arrivo che si collocherebbe nell’intervallo 3,5-4%, dove, come già detto, potrebbe trovarsi attualmente il tasso neutrale.
In termini di rischi, nel caso degli Stati Uniti andremo a guardare a quali saranno le decisioni specifiche che Trump finirà per adottare in tre aree principali: dazi, immigrazione e politica di bilancio. Se dovessimo arrivare a politiche aggressive in questi tre ambiti, e tenendo conto che l’economia americana è sostanzialmente in piena occupazione, sarebbe molto difficile non vedere un rimbalzo significativo dell’inflazione che, a sua volta, potrebbe costringere la Fed a cambiare rotta della sua politica monetaria, con i conseguenti effetti negativi sia sull’attività economica che sui mercati. Inoltre, per quanto riguarda la politica di bilancio, non va dimenticato che il Paese parte da livelli molto elevati di disavanzo e debito pubblico e, quindi, una politica fiscale eccessivamente lassista non solo sarebbe inflazionistica ma potrebbe anche far sorgere dubbi sull’impegno dell’amministrazione Trump per la sostenibilità del debito pubblico statunitense. Il tutto, peraltro, senza voler entrare nel merito della possibilità che Trump possa avanzare l’idea di attaccare l’indipendenza della Fed. Del resto, si tratterebbe di qualcosa di talmente dirompente e controproducente che, proprio per questo, verrà evitato.
Nell’Eurozona, i deboli dati macroeconomici pubblicati nel mese di novembre mostrano un deterioramento del sentiment economico, probabilmente spiegato dall’ulteriore incertezza che la vittoria elettorale di Trump significa per il nostro continente. Gli ultimi dati PMI manifatturieri e dei servizi sono stati deludenti e dopo mesi di miglioramento, si è registrato anche un calo della fiducia dei consumatori europei nell’ultimo mese.
Se Trump dovesse mantenere una politica moderata, riteniamo che questa flessione dei dati macroeconomici dell’Eurozona potrebbe essere di breve durata perché continuiamo a vedere motivi per aspettarci un rimbalzo ragionevolmente significativo della crescita economica europea nel corso del 2025: solidi fondamentali dei consumi privati (aumento dei salari reali; bassa disoccupazione; eccellente bilancio delle famiglie); tassi di interesse reali molto bassi; la politica fiscale probabilmente un po’ più espansiva dopo le elezioni tedesche di febbraio; e, infine, una Commissione europea disponibile a diventare più attiva nell’introduzione di misure che comportino meno oneri amministrativi per le imprese.
Altro fattore, la Bce mostra toni sempre più accomodanti: con l’inflazione dei servizi che inizia a mostrare segni di moderazione, per la riunione di dicembre ci aspettiamo un taglio dei tassi di 25pb e un segnale che la politica monetaria nell’Eurozona è almeno neutrale, con i tassi di interesse che dovrebbero continuare a scendere nelle riunioni successive. In termini di rischi continueremo a prestare particolare attenzione alla situazione in Francia, sia dal punto di vista politico che fiscale.
In Cina, i dati più recenti sull’attività confermano segnali un po’ più positivi, il che dà modo al paese di analizzare la reale aggressività di Trump prima di adottare nuove misure espansive. Anche così, non è affatto escluso che ulteriori stimoli, probabilmente focalizzati sul sostegno dei consumi, vengano approvati già a partire da questo dicembre.
In Giappone, nel frattempo, le prospettive di crescita rimangono ragionevolmente favorevoli: i consumi privati dovrebbero essere sostenuti da un apprezzabile dinamismo salariale, la politica fiscale continuerà a sostenere l’attività e la BoJ rimarrà probabilmente cauta nel ridurre l’orientamento espansivo della politica monetaria.
View di mercato
Azionario: continuiamo a optare per posizioni moderatamente costruttive sull’equity. A livello geografico, scommettiamo su pesi simili nell’Eurozona e negli Stati Uniti, con una certa enfasi su quest’ultimo mercato nel segmento delle piccole e medie imprese. Allo stesso tempo, continuiamo ad apprezzare molto l’Asia emergente e difendiamo un peso sufficiente nel portafoglio in questa regione. Cerchiamo di farlo, peraltro, senza sovrappesare ma anche senza escludere la Cina, poiché riteniamo che gli stimoli che quasi certamente continueranno ad essere adottati dovrebbero contribuire a dare un sostegno alle azioni del Paese. In caso contrario, riteniamo che anche le azioni britanniche abbiano una certa attrattiva, grazie alle valutazioni, alla relativa buona situazione del paese e per il fatto che il Regno Unito potrebbe non essere una delle economie più colpite in uno scenario di “Trump aggressivo”. Infine, privilegiamo anche un certo posizionamento in Giappone, grazie alle buone prospettive macroeconomiche del paese e ai progressi che continuano a essere compiuti in quell’economia in termini di corporate governance e remunerazione degli azionisti.
Titoli di Stato: l’elevato disavanzo pubblico, con il rischio di rialzo per la durata del premio della curva, e le nostre stime dei tassi neutrali ragionevolmente elevate ci inducono a continuare a evitare le posizioni acquistate sulla curva americana, soprattutto nelle tranche lunghe. Inoltre, i significativi cali che si sono verificati nelle ultime settimane del rendimento del titolo tedesco a 10 anni ci portano a smettere di vedere interessanti posizioni lunghe su questo asset. Le opportunità che vediamo sono nel segmento medio e lungo delle curve governative nei Paesi che offrono un carry sufficiente e, allo stesso tempo, godono di una situazione di bilancio chiaramente solida come Australia e Nuova Zelanda.
Obbligazioni societarie: al fine di ottenere un certo spread rispetto al Bund nel portafoglio obbligazionario in euro, continuiamo a preferire le obbligazioni societarie con sufficiente qualità creditizia e con scadenze piuttosto brevi rispetto ai debiti pubblici dei paesi europei con bilanci “non performing”.
Valute: le nuove incertezze introdotte da Trump fanno sì che il dollaro, nonostante il significativo apprezzamento degli ultimi mesi, possa continuare a svolgere un certo ruolo di copertura nel portafoglio di un investitore in euro. A nostro avviso, questo vale anche per altre valute sviluppate, come le seguenti: sterlina, dollaro canadese, dollaro australiano, dollaro neozelandese, corona norvegese e corona svedese, paesi che, in generale, offrono livelli di carry interessanti, godono di scenari macroeconomici favorevoli al 6-12 e hanno anche una posizione di bilancio ragionevolmente stabile.
Riteniamo inoltre che nel portafoglio ci sia spazio, in modo prudente e selettivo, per le valute emergenti di paesi con buone prospettive di crescita, con banche centrali credibili, con una situazione sana in termini di saldo delle partite correnti e con conti pubblici sufficientemente solidi. La rupia indiana e la rupia indonesiana sono particolarmente interessanti per noi in questo senso, anche se preferiamo anche posizioni caute nel peso messicano, tenendo conto del suo elevato livello di carry, del fatto che è già scambiato con un forte premio per il rischio e senza escludere la possibilità che il paese finisca per raggiungere un accordo con Trump che alla fine eviterà l’imposizione di dazi eccessivi.

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Mente e denaro
Sala Stampa