Dazi reciproci: la strategia di Trump che sfida le leggi dell’economia
Nonostante le numerose incoerenze nella politica di Trump, la sua convinzione che i dazi possano curare i deficit commerciali statunitensi e rilanciare l’economia americana rimane immutata. Imponendo un’aliquota minima del 10% su tutte le importazioni, gli Stati Uniti stanno portando l’aliquota media dei dazi al livello più alto dalla metà degli anni ’30. Hanno anche superato le aspettative riguardo alle singole aliquote dei dazi reciproci. Inoltre i paesi con cui gli Stati Uniti non hanno un deficit commerciale, come Regno Unito, Australia, Brasile e Singapore, saranno comunque soggetti a un dazio di base del 10%.
Metodologia alla base dei dazi reciproci
Secondo l’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, i dazi attualmente applicati agli USA – tenendo conto della manipolazione valutaria e delle barriere commerciali – “sono calcolati come l’aliquota tariffaria necessaria per bilanciare i deficit commerciali bilaterali tra gli Stati Uniti e ciascuno dei nostri partner commerciali”. I presupposti fondamentali del calcolo sono che:
- I deficit commerciali persistenti sono dovuti a una combinazione di fattori tariffari e non tariffari che impediscono il bilanciamento degli scambi;
- I dazi funzionano attraverso riduzioni dirette delle importazioni;
- Gli effetti compensativi dei tassi di cambio e di equilibrio generale sono abbastanza ridotti da poter essere ignorati.
L’equazione utilizzata per calcolare i dazi implica che la variazione dell’aliquota tariffaria necessaria per portare la bilancia commerciale a zero può essere ottenuta dividendo la bilancia commerciale bilaterale degli Stati Uniti con il paese considerato per sue le importazioni statunitensi. L’Ufficio utilizza l’equazione per calcolare i dazi che i partner commerciali presumibilmente impongono sui beni statunitensi.
Ignorando la variabilità nel tempo, l’Ufficio ha basato il calcolo del dazio implicito sui dati commerciali del 2024. Per “riequilibrare” i loro deficit commerciali bilaterali, Vietnam e Cina richiederebbero dazi eccezionalmente elevati – 90,4% e 67,3% – mentre Canada e Messico avrebbero bisogno di tassi molto più bassi, rispettivamente al 15,3% e al 34%. L’UE e il Giappone si collocano in posizione intermedia, con tassi impliciti del 38,9% e del 46,2%. Poiché i dazi reciproci effettivamente imposti sono solo la metà dei tassi impliciti, i deficit commerciali potrebbero essere ridotti solo del 50%.
Il ragionamento alla base del calcolo dei dazi reciproci dell’Ufficio è economicamente infondato. È un’ipotesi comune ma errata quella secondo cui un aumento dei dazi riduca esclusivamente le importazioni. I dazi aumenteranno il costo dei beni stranieri, scoraggiando così il loro consumo negli Stati Uniti, e innescheranno anche una serie di più ampi aggiustamenti economici.
In primo luogo, i produttori statunitensi di beni protetti dai dazi – e ce ne saranno molti – potrebbero rispondere aumentando i prezzi a causa della ridotta concorrenza. Prezzi più alti e sostituibilità limitata possono erodere il potere d’acquisto dei consumatori e limitare il consumo complessivo. Dato che i consumi privati che hanno contribuito maggiormente alla crescita economica statunitense negli ultimi anni, la loro riduzione potrebbe portare a un rallentamento economico con un contemporaneo aumento dell’inflazione .
In secondo luogo, le aziende statunitensi che producono per il mercato interno, ma che si approvvigionano dall’estero, dovranno affrontare costi di input più elevati. Gli investimenti in capacità nazionale per sostituire gli input dall’estero diminuirebbero a causa dell’incertezza prodotta dalla politica commerciale – contrariamente alla narrativa di Trump. Un calo della crescita e dell’occupazione sarebbe un risultato più probabile.
In terzo luogo, i partner commerciali degli Stati Uniti hanno ripetutamente minacciato ritorsioni con dazi propri, il che comporterebbe una riduzione delle esportazioni statunitensi e danni alle industrie nazionali dipendenti dai mercati esteri
Nel peggiore dei casi, una guerra commerciale a tutto campo potrebbe innescare un’ondata prolungata di instabilità nel commercio globale e spingere l’economia mondiale in recessione. È inoltre fuorviante supporre che gli aumenti tariffari influenzino solo le importazioni. Un paese che esporta meno verso gli Stati Uniti guadagna meno valuta estera e potrebbe finire per acquistare meno beni statunitensi in cambio. Le evidenze passate confermano chiaramente il movimento congiunto tra esportazioni e importazioni. Questo distrugge la semplice aritmetica dell’equazione, esponendo la logica traballante della Trumponomics.
Conclusione
Una guerra commerciale a tutto campo non è inevitabile. I governi che comprendono i guadagni reciproci derivanti dal commercio potrebbero mantenere la calma e continuare a perseguire accordi di libero scambio, nonostante l’approccio dell’attuale amministrazione statunitense. C’è persino la possibilità che il danno economico causato da una politica tariffaria erratica alla fine provochi un’inversione di marcia a Washington. Nel migliore dei casi, i governi di tutto il mondo riconosceranno l’importanza del libero scambio. Dopotutto, sperare non costa nulla, ed è certamente meglio che camminare sonnambuli verso un incubo protezionistico.

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