Allinearsi agli ordini del “papino”?

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I rendimenti dei Treasury sono scesi nell’ultima settimana, poiché gli operatori di mercato hanno maggiore fiducia in possibili tagli dei tassi da parte della Fed nella seconda metà del 2025.

Dopo aver lanciato attacchi militari lo scorso fine settimana, l’indulgenza di Trump sembra aver posto fine al conflitto aperto tra Israele e Iran, contribuendo al ritorno dei prezzi del petrolio ai livelli precedenti alla “guerra dei 12 giorni”. Ciò ha contribuito ad alleviare alcune preoccupazioni a breve termine relative all’inflazione.

Le prime stime relative all’IPC di giugno suggeriscono, inoltre, che i prossimi dati sui prezzi negli Stati Uniti potrebbero essere relativamente favorevoli, con aumenti dei prezzi dovuti ai dazi che dovrebbero manifestarsi solo nei dati che saranno pubblicati più avanti nell’estate.

In questo contesto, Waller e Bowman si sono discostati dal consenso all’interno della Fed, sostenendo la possibilità di un taglio dei tassi già nella riunione del FOMC di luglio. Sebbene riteniamo che ciò sia poco probabile, sembra inevitabile che le pressioni politiche su Powell aumenteranno nei prossimi mesi, a meno che le proiezioni sull’inflazione non registrino un significativo rialzo.

Su queste basi, scontare dei tagli della Fed a settembre e dicembre ci sembra piuttosto ragionevole, e continuiamo a sentirci relativamente a nostro agio con le attuali aspettative del mercato riguardo al futuro andamento dei tassi d’interesse negli Stati Uniti.

Nel frattempo, i titoli obbligazionari con scadenze più lunghe hanno sottoperformato rispetto al rally sulla parte breve della curva, determinando un irripidimento della stessa, in linea con le nostre previsioni. Riteniamo che questa tendenza abbia ancora margini per proseguire nelle prossime settimane e continuiamo a privilegiare una posizione sui titoli a 2 anni rispetto alle scadenze trentennali.

Si fanno sempre più insistenti le voci secondo cui Trump potrebbe annunciare con largo anticipo il nome del prossimo presidente della Fed, in un contesto di crescente frustrazione da parte dell’amministrazione nei confronti dell’intransigenza di Powell. Come già accaduto per altre nomine dell’ex presidente, si può presumere che l’eventuale candidato venga scelto in base alla lealtà verso Trump e all’impegno a realizzare l’agenda dell’amministrazione.

Nella misura in cui questo scenario suggerisce tassi d’interesse più bassi, indipendentemente dai dati sull’inflazione nel breve termine, i mercati potrebbero interpretarlo come un fattore in grado di spingere ulteriormente al ribasso i rendimenti a breve termine, esercitando invece una pressione opposta sui titoli a lunga scadenza.

Le preoccupazioni legate ai rendimenti dei titoli a lunga scadenza sono destinate a persistere, con il bilancio federale statunitense che dovrebbe essere finalizzato nel corso del prossimo mese, prima della pausa estiva del Congresso.

La pressione per raggiungere un accordo attraverso la procedura di riconciliazione suggerisce che, nelle prossime settimane, emergeranno compromessi all’interno delle fila repubblicane. Il risultato atteso è un disavanzo fiscale intorno al 7% del Pil, nonostante entrate tariffarie comprese tra 250 e 300 miliardi di dollari.

In questo contesto, le preoccupazioni riguardo all’aumento del debito pubblico statunitense difficilmente si attenueranno nel breve termine. Nonostante le dichiarazioni presidenziali secondo cui il deficit è destinato a ridursi, ci sembra improbabile che questa amministrazione introduca aumenti fiscali o tagli significativi alla spesa. Di conseguenza, l’unico fattore in grado di ridurre il deficit sarà un calo sostanziale dei costi di finanziamento.

Questo riflette il desiderio di Trump di ottenere tassi d’interesse più bassi e il piano di orientare la struttura per scadenza del debito verso la parte breve della curva. Tuttavia, la realtà economica sembra difficilmente compatibile con un allentamento significativo delle condizioni finanziarie, a meno di un contesto macroeconomico decisamente più negativo.

Il desiderio di ridurre i costi di finanziamento è stato anche uno dei fattori alla base delle recenti modifiche al Supplementary Leverage Ratio (SLR), volte a rendere più interessante per le banche detenere titoli di Stato. Tuttavia, è probabile che gli istituti siano disposti ad acquistare obbligazioni a lunga scadenza solo se la curva dei rendimenti dovesse diventare più inclinata rispetto alla situazione attuale.

Trump ha inoltre esercitato una forte influenza sui recenti vertici del G7 e della NATO. In quest’ultimo caso, il Segretario Generale Mark Rutte è apparso ossequioso nei confronti del “papino”, colmo di elogi e ansioso di portare avanti l’agenda dell’ex presidente, spingendo gli Stati membri ad aumentare la spesa per la difesa e la sicurezza fino al 5% del Pil entro il 2035.

In un certo senso, questa acquiescenza non è stata del tutto sorprendente, alla luce dei recenti annunci della Germania relativi a un allentamento del proprio bilancio. Tuttavia, l’immagine di un’Europa inginocchiata davanti al “re” nel tentativo di tenerlo dalla propria parte e parte dell’Alleanza NATO è probabilmente stata accolta con disagio in diverse capitali europee.

Tutto ciò potrebbe riflettersi nelle prossime trattative commerciali, in cui l’UE potrebbe mostrarsi intenzionata ad adottare una linea più dura. Sebbene ci aspettiamo un rinvio della scadenza del 9 luglio per l’introduzione delle tariffe statunitensi, dato lo scarso avanzamento nelle trattative sugli accordi commerciali, riteniamo che le tensioni commerciali siano destinate ad aumentare nelle prossime due settimane, man mano che la scadenza si avvicina.

Con Trump in una fase di slancio politico, riteniamo che potrebbe essere incline a ribadire il proprio impegno verso l’agenda della sua amministrazione annunciando nuovi dazi. In tal senso, pensiamo che il settore farmaceutico europeo possa finire sotto i riflettori. Allo stesso modo, è probabile che le contromisure tariffarie europee entrino in vigore una volta superata tale scadenza.

Continuiamo a ritenere che i mercati stiano mostrando una certa compiacenza nei confronti dei rischi legati al commercio internazionale. Sebbene sia improbabile un nuovo episodio paragonabile a quello del 2 aprile, riteniamo possibile l’alternarsi di fasi di volatilità sotto la presidenza Trump, intervallate da periodi di relativa calma. In questo contesto, la fase di tranquillità che ha prevalso dalla seconda metà di aprile potrebbe essere prossima alla conclusione. Questo ci porta a ritenere opportuno mantenere un approccio relativamente cauto in termini di esposizione agli asset rischiosi.

Nell’Eurozona, l’aumento sostanziale della spesa fiscale legata alla difesa sta già portando a un incremento dell’offerta di titoli di Stato. In quest’ottica, si stima che nei prossimi 10 anni la Germania possa emettere ulteriori 1.000 miliardi di euro in Bund, con un aumento di oltre il 50% dello stock di debito in circolazione. Una sfida per i rendimenti dal punto di vista dell’offerta.

Questo impulso fiscale lascia inoltre presagire una crescita più solida a livello regionale, riducendo la necessità di ulteriori interventi espansivi da parte della politica monetaria. Di conseguenza, riteniamo che i titoli di Stato dell’Eurozona faticheranno a registrare ulteriori rialzi rispetto ai livelli attuali, anche se i maggiori flussi valutari verso l’euro e gli asset europei potrebbero costituire un elemento di sostegno.

Con i rendimenti dei Bund decennali intorno al 2,5%, riteniamo che i tassi siano vicini al loro valore equo. Allo stesso modo, al momento è difficile entusiasmarsi riguardo all’andamento degli spread regionali.

Per il Regno Unito, l’impegno di Starmer nei confronti della NATO non fa che aggravare i suoi già complessi problemi di bilancio. Una possibile ribellione interna riguardo alla riforma del welfare potrebbe spingere il governo a fare marcia indietro nei prossimi giorni, e sembra che l’opinione pubblica desideri un aumento della spesa per sussidi e aiuti statali. In tale contesto, è difficile mantenere disciplina fiscale in altri ambiti mentre si destinano ulteriori risorse alla difesa.

Per molti versi, Starmer si trova in balia degli eventi. Proprio come Tony Blair ritenne impossibile, da leader laburista, voltare le spalle agli Stati Uniti e alla “Relazione Speciale” nel contesto della guerra in Iraq, anche Starmer non ha avuto altra scelta che allinearsi ai piani di aumento della spesa per la difesa.

Tuttavia, è probabile che il suo obiettivo sia quello di posticipare nel tempo l’effettiva implementazione di tali impegni, così da evitare pressioni immediate per un aumento delle tasse o tagli alla spesa pubblica in altri settori.

Da questo punto di vista, Reeves e Starmer continuano a muoversi su un filo teso in ambito fiscale. Scelte difficili potrebbero portare, ad esempio, all’abbandono degli impegni precedenti in materia di transizione ecologica (net zero), anche se gli elementi disponibili suggeriscono ancora un orientamento verso un maggiore allentamento fiscale.

In questo contesto, i responsabili politici sperano che il mercato dei Gilt non reagisca negativamente. Dal nostro punto di vista, le persistenti preoccupazioni legate all’inflazione nel Regno Unito e alla posizione fiscale ci portano a mantenere una visione più ribassista sia sui Gilt che sulla sterlina.

Al momento non abbiamo posizioni attive sul Regno Unito. Tuttavia, se i rendimenti decennali dovessero scendere sotto il 4,40%, ciò potrebbe rappresentare un punto di ingresso interessante per assumere una posizione corta esplicita.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, un accordo commerciale con il Giappone sembra ancora lontano, anche perché Tokyo sta respingendo le pressioni americane per un aumento della spesa in difesa.

Il panorama politico giapponese è complesso, con le elezioni della Camera Alta previste per il 20 luglio. Tuttavia, parlando con i policymaker, percepiamo che il Giappone continua a provare un senso di tradimento da parte degli Stati Uniti rispetto a quanto annunciato il 2 aprile e riteniamo che meriti un trattamento migliore da parte del suo alleato di lunga data.

Dal punto di vista dei mercati finanziari, la mancanza di progressi sul fronte commerciale ha reso più probabile che, per il momento, la BoJ mantenga una posizione accomodante. In questo contesto, riteniamo che la curva dei rendimenti continuerà a oscillare intorno ai livelli attuali per un certo periodo.

Tuttavia, riteniamo che i dati sull’inflazione più elevati rinnoveranno la pressione per una normalizzazione della politica dei tassi d’interesse nei prossimi mesi, contribuendo ad appiattire lo spread 10/30 dei titoli di Stato giapponesi, oltre ad aumentare i rendimenti a breve termine.

Sul fronte valutario, le prospettive di un taglio dei tassi statunitensi hanno alimentato la narrativa di un dollaro più debole, spingendo l’indice DXY al minimo degli ultimi tre anni. L’analisi dei dati di flusso suggerisce che gran parte del movimento degli ultimi due mesi è dovuto all’aumento dei rapporti di copertura da parte degli investitori asiatici.

Ad oggi non vi sono prove di vendite di asset statunitensi da parte di investitori esteri. Tuttavia, osserviamo un deflusso di asset allocation dagli Stati Uniti e, anche se ciò non dovesse innescare vendite di posizioni esistenti, sembra probabile che i flussi marginali di risparmio si allontanino dal dollaro e dai mercati statunitensi in una prospettiva futura. Notiamo inoltre che molti investitori con cui dialoghiamo ammettono di essere sovraesposti ai titoli statunitensi.

Da questo punto di vista, la tendenza al ribasso del dollaro potrebbe protrarsi ancora per diversi mesi, ma siamo anche cauti riguardo all’accumulo di posizioni speculative a breve termine. Ad esempio, ciò potrebbe significare che uno shock di volatilità, come quello osservato il 2 aprile, potrebbe finire per rafforzare il dollaro, se questo portasse a una riduzione del rischio e a un taglio delle posizioni su più ampia scala.

Da questo punto di vista, la reazione dei mercati valutari in caso di una fase di avversione al rischio potrebbe rivelarsi molto diversa da quella osservata il 2 aprile. Nel comparto valutario continuiamo a privilegiare il won coreano. Abbiamo inoltre aggiunto una posizione lunga sul renminbi cinese, che ha sottoperformato le altre valute. In Europa abbiamo aggiunto anche la corona norvegese, che ha sottoperformato a causa del calo dei prezzi del petrolio registrato questa settimana.

I mercati del credito sono stati stabili nell’ultima settimana, grazie all’attenuarsi delle tensioni in Medio Oriente. Uno dei temi su cui ci siamo concentrati è il modo in cui i pagamenti annuali delle cedole in diverse asset class del credito stanno contribuendo a neutralizzare l’offerta netta.

Qualche anno fa, i pagamenti delle cedole erano molto più modesti, il che significava che era necessario allocare nuovo denaro nel credito per bilanciare l’offerta e la domanda. Tuttavia, i fondamentali del credito sono ora in una posizione più solida.

Riteniamo inoltre che la spesa fiscale europea stia riducendo i rischi di recessione nell’Europa continentale. Poiché la recessione è il principale fattore di rischio per il deterioramento del credito, possiamo dedurre che il credito dovrebbe sovraperformare i titoli di Stato fintanto che i rischi di recessione rimarranno bassi o in calo.

Sebbene permangano preoccupazioni riguardo al compiacimento nei confronti degli asset rischiosi in generale, abbiamo eliminato alcune coperture aggiunte in seguito all’acuirsi delle tensioni in Medio Oriente. Tuttavia, riteniamo opportuno mantenere un atteggiamento relativamente cauto, poiché le valutazioni non sono particolarmente allettanti. Da questo punto di vista, preferiremmo trovarci in una posizione che ci consenta di approfittare di eventuali debolezze del mercato.

Abbiamo continuato a privilegiare il debito rumeno in euro come nostra prima scelta nell’universo dei titoli sovrani investment grade. Dalle elezioni di metà mese scorso, gli spread nel Paese sono tornati ai livelli prevalenti all’inizio dell’anno, grazie alla diminuzione dei rischi politici. Sebbene il deficit fiscale e quello delle partite correnti rimangano una fonte di preoccupazione per il Paese, gli spread prevalenti a 350 punti base sopra i Bund offrono a nostro avviso una compensazione significativa per questi rischi, considerando che il livello del debito in essere rimane modesto nel contesto internazionale.

Guardando avanti

La festività dell’Independence Day negli Stati Uniti la prossima settimana comporta che il rapporto mensile sull’occupazione sarà pubblicato con un giorno di anticipo, giovedì prossimo.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un leggero rallentamento dei dati economici statunitensi. Il calo dell’attività potrebbe alimentare l’entusiasmo per un taglio dei tassi, che a nostro avviso potrebbe contribuire a ridurre la ripidità della curva dei rendimenti e a indebolire ulteriormente il dollaro. Tuttavia, riteniamo che, piuttosto, saranno i dati sull’inflazione a metà mese a rivelarsi più determinanti per le decisioni della Fed e per l’andamento dei rendimenti.

Detto questo, è possibile che nei prossimi giorni i titoli dei giornali sul commercio siano un fattore molto più influente dei dati economici sulla dinamica dei prezzi.

Big Daddy è al culmine del successo e le sue argomentazioni sembrano avere la meglio. Infatti, la vittoria del candidato di sinistra Zohran Mamdani nelle recenti elezioni per il sindaco di New York continua a suggerirci che il Partito Democratico è ancora in disordine dopo le elezioni dello scorso novembre.

Forse il rischio per i mercati è che, con Trump così ottimista, non ci sarebbero molte forze in grado di frenarlo se decidesse di raddoppiare il suo piano “Make America Great Again”.

La domanda per gli investitori sarà se questo possa portare a un nuovo periodo di volatilità o se l’opinione pubblica, la Fed, i governi esteri e i mercati finanziari si allineeranno docilmente alle istruzioni del papino.

Riflettendo su questa domanda, riteniamo che sia ancora giustificato un outlook cauto. Ad un certo punto, sembra probabile che ci sarà una reazione.