Cinque motivi per cui l’euro potrebbe indebolirsi contro il dollaro nel 2026

Michele Sansone, country manager di iBanFirst Italia -

Il recente rafforzamento dell’euro, sostenuto da un consenso di mercato piuttosto ampio, sta consolidando l’idea che il cambio EUR/USD sia entrato in un nuovo intervallo stabile, compreso tra 1,15 e 1,20.

Per molti questo è considerato il “nuovo equilibrio”. Tuttavia, quando il consenso diventa così uniforme, è bene essere prudenti. Dietro questa visione condivisa si nascondono infatti diversi fattori che potrebbero portare a un nuovo rafforzamento del dollaro rispetto all’euro.

  1. I mercati FX sbagliano quando ignorano i flussi di capitale

Oggi il mercato dei cambi sta ripetendo lo stesso errore commesso all’inizio del 2025. All’epoca, il consenso prevedeva un modesto calo del Dollar Index, nell’ordine del 3–5%. In realtà il dollaro ha registrato la flessione più marcata dal 1973, arrivando a perdere il 12% contro l’euro.

La lezione è chiara: i flussi di capitale e il momentum incidono sulle dinamiche valutarie molto più dei fondamentali macroeconomici, dei saldi commerciali, della geopolitica o persino dei differenziali di tasso.

  1. Il movimento di inizio anno si è invertito

La debolezza del dollaro nei primi mesi dell’anno non può essere spiegata esclusivamente dal protezionismo statunitense. È stata alimentata anche da forti vendite sull’azionario USA, in particolare da parte degli hedge fund, che spesso guidano le tendenze dei mercati globali.

Dopo un 2024 particolarmente positivo per i titoli tecnologici americani, molti investitori hanno preso profitto e spostato parte dei capitali verso azioni europee, ritenute più convenienti, cavalcando un momentum favorevole sostenuto dall’annuncio dello stimolo fiscale tedesco e dalla speranza, poi rivelatosi eccessiva, di una rapida risoluzione del conflitto in Ucraina.

Questa rotazione è ora in fase di inversione.

  1. I mercati azionari USA tornano attrattivi

Mentre le prospettive di crescita dell’Europa restano più deboli rispetto a quelle statunitensi, i capitali stanno progressivamente lasciando i mercati europei per tornare sull’azionario USA. Dopo la correzione di novembre, molte grandi società tecnologiche sono tornate a valutazioni interessanti.

Meta ne è un esempio emblematico: con un rapporto prezzo/utili intorno a 23, il titolo è tornato a rappresentare un’opportunità d’acquisto interessante per molti investitori.

Se questi flussi dovessero rafforzarsi, potrebbero sostenere il dollaro nel corso del 2026.

  1. I tagli dei tassi della Fed potrebbero favorire il dollaro

Il ciclo di riduzione dei tassi da parte della Federal Reserve è destinato a ridurre l’attrattività dei rendimenti dei fondi monetari, sia negli Stati Uniti sia in Europa.

Di conseguenza, una parte delle centinaia di miliardi attualmente ferme nei fondi monetari potrebbe essere reinvestita nei mercati azionari, soprattutto negli Stati Uniti.

Anche questo spostamento di capitali andrebbe a favore di un dollaro più forte.

  1. Le notizie negative sul dollaro sono già nei prezzi

Infine, la maggior parte dei fattori negativi che pesano sul dollaro sembra già pienamente incorporata nelle valutazioni correnti — ed è forse questo il punto più rilevante.

La possibile sostituzione di Jerome Powell con un presidente della Fed più allineato alla Casa Bianca, le tensioni nel mercato del private credit statunitense e un rallentamento del mercato del lavoro: tutti questi elementi sono già ben noti agli investitori e in larga parte incorporati nelle valutazioni.

Anche la sopravvalutazione strutturale del dollaro, stimata tra il 10% e il 15%,  è ampiamente riconosciuta. Tuttavia, una valuta può rimanere costosa per periodi molto prolungati finché la domanda per gli asset denominati in quella valuta resta elevata, come nel caso del dollaro.

Per questo il consenso di mercato va preso con cautela. Uno scenario alternativo plausibile è un ritorno del cambio verso l’area 1,12–1,13 nel medio periodo, con implicazioni concrete per le strategie di copertura. La storia recente insegna che, nei mercati valutari, il consenso spesso si rivela sbagliato.