Novelli, Lemanik: il Giappone è ormai l’unica stampella del malato sistema finanziario americano
La crisi di agosto dei mercati finanziari, rapidamente contenuta, lascia un messaggio molto chiaro agli investitori: appena si diffonde il dubbio che il quadro macro possa essere diverso da quello raccontato i mercati si sgretolano nel vuoto sottostante. È particolarmente interessante notare come la psicologia che tiene in piedi questo mercato sia estremamente fragile e bisognosa di costanti interventi. In un contesto dove tutto sembra in apparenza andare nella direzione della esasperata narrazione che il sistema è solido e l’economia cresce, è bastato il dubbio che questo non fosse vero che il sistema si è immediatamente trovato in crisi. Ma questo evento mette in evidenza anche la stretta interconnessione finanziaria che lega, in un abbraccio indissolubile, Bank of Japan e Fed, e come il Giappone sia ormai diventato l’unico puntello di sostegno del malato sistema finanziario americano.
Politiche monetarie globali a servizio dell’economia Usa
Il problema è che oggi le due banche centrali hanno obiettivi divergenti: mentre una cerca di contenere l’inflazione l’altra cerca di produrla reflazionando. Da circa 25 anni la Boj e il risparmio giapponese hanno finanziato il leverage americano e sostenuto l’espansione del debito per finanziare la crescita Usa. Il meccanismo sta in piedi se lo yen è strutturalmente debole e i tassi del paese esportatore di capitale e di risparmio stanno a zero, mentre quelli del paese che deve importare risparmio e capitale estero stanno in territorio positivo. Lo spread dei tassi tra dollaro e yen deve dunque essere sempre ampiamente negativo per lo yen. In questo modo tutta la politica di quantitative easing del Giappone finisce negli Stati Uniti. Il meccanismo ha consentito agli Stati Uniti di avere, per oltre 25 anni, una banca centrale che stampava moneta all’estero (Boj) ma che canalizzava poi la liquidità creata nel sistema finanziario giapponese negli Stati Uniti. L’America ha quindi beneficiato, in particolare negli ultimi 10/14 anni, di due banche centrali che iniettavano liquidità nel sistema finanziario Usa, dove il QE di Boj e Fed sosteneva quindi una sola economia e non due. Infatti il Giappone non ha mai beneficiato della liquidità creata da Boj (l’economia ha sempre ristagnato) dato che spariva nei meandri dei carry trade necessari per sostenere il leverage Usa. È evidente che il moltiplicatore monetario Usa, calcolato con l’aggiunta della liquidità di Boj, produce un pessimo e disastroso risultato finale: colossale liquidità (Fed e Boj) ma bassa crescita e pericolose bolle speculative.
Anche la Bce ha contribuito a tale meccanismo durante la gestione Draghi, dato che i tassi sull’Euro si sono allineati a quelli giapponesi e tutta la liquidità della Bce è in realtà servita a sostenere carry trade verso il dollaro, procurando pochi benefici alle economie Ue. Il moltiplicatore monetario Usa è quindi già in crisi da molto tempo nonostante i mercati finanziari continuino a credere che basta stampare moneta per risolvere i problemi strutturali dell’economia. Lo studio di questo meccanismo sarebbe di per sè interessante per valutare un’intera rivisitazione delle teorie e politiche monetariste di cui sono infarciti i cervelli dei nostri banchieri centrali, ma non è qui il caso di entrare in tale dibattito. Il punto è che le politiche monetarie globali che abbiamo fatto finora sono state al 90% finalizzate a sostenere la finanza e l’economia Usa. Questo abbraccio “mortale” tra banche centrali, in particolare Boj e Fed, regge se il Giappone ristagna in deflazione e i ritorni sugli investimenti in yen rimangono decisamente più bassi di quelli in dollari. Se l’economia giapponese, dopo 30 anni di stagnazione, volesse cambiare strategia e tornare a crescere, ecco che l’equilibrio si rompe e i flussi di capitale, che sostengono la leva finanziaria con la quale l’economia Usa cresce, si invertono. Questo meccanismo spiega però anche un’altra cosa: nessuna economia del G3 può veramente utilizzare la liquidità che immette nel sistema e non può avere un cambio più forte del dollaro. Se dovesse accadere che euro e yen, o Europa e Giappone, impiegassero la liquidità immessa da Bce e Boj nelle loro economie e la loro crescita dovesse superare quella americana ci sarebbe una crisi di dollaro e un deleverage in America. Le banche centrali temono due cose in particolare: una crisi di dollaro e una rottura dei carry trades che hanno alimentato per oltre vent’anni, generando un decennio di speculazione finanziaria senza limiti. L’intero sistema di Bretton Wood è quindi destinato a fallire, poiché stando così le cose, le economie di Giappone ed Europa sono condannate alla stagnazione eterna per sostenere questo meccanismo. Per quanto tempo i governi di Europa e Giappone reggeranno alle pressioni di una opinione pubblica che invece vuole la crescita? La crescita dei salari reali per superare la stagnazione è per questi paesi una scelta necessaria ma anche un serio problema per l’America, dato che implica più crescita e una inflazione più alta in Ue e Giappone e l’inflazione più alta implica tassi più alti, ma tassi più alti in Giappone ed Europa sono malvisti dagli Stati Uniti, che li vedono come una minaccia al differenziale di rendimento che deve sempre essere ampiamente a loro favore. È quindi evidente che le recenti politiche reflazionistiche giapponesi, mirate a far salire i salari reali e a stimolare la crescita, sono una minaccia per gli interessi americani e per Wall Street. Infatti, la Sig.ra Yellen ha più volte criticato Boj e il governo giapponese perché ritiene che il Giappone, prima di decidere la sua politica economica, si deve consultare con gli Stati Uniti che, aggiungo io, gli direbbero quello che possono fare e non fare. Questo illustra a che punto siamo arrivati: per sostenere le bolle finanziarie americane il resto del mondo, Cina compresa, deve essere condannato alla stagnazione, per non diventare un potenziale polo di attrazione o competitor del capitale globale che serve prevalentemente agli Stati Uniti e alla finanza speculativa americana. La Cina stava per posizionarsi infatti come un competitor di capitali ma è stato prontamente eliminato dal sistema nel corso degli ultimi due anni, con politiche mirate a contenere gli investimenti (non solo finanziari) dei paesi occidentali in Cina. Il problema è che tale sistema non regge se la crescita mondiale si appiattisce e il sistema entra nell’eterno soft landing che ci viene narrato dalla finanza americana, dove tutto ristagna anche in America.
Dati macro Usa politicizzati
Un ulteriore problema alla tenuta di tale meccanismo è come l’America utilizza il capitale che riceve dai paesi che glielo prestano. Se lo utilizzi per fare economia reale e produci crescita globale, l’effetto trascinamento esercitato dalla crescita Usa viene in parte catturato anche dai paesi satelliti che ti finanziano, ma se utilizzi tale capitale per fare prevalentemente finanza speculativa, la crescita economica ristagna anche in America e l’effetto trascinamento sparisce, generando problemi interni ai paesi che esportano il capitale che servirebbe a finanziare la loro crescita e non quella americana. Siamo ora giunti al paradosso che, per far vedere che l’economia Usa continua a “meritare” i capitali che assorbe dall’estero, i dati macro non devono mai cedere rispetto a quelli degli altri paesi, e i colossali carry trades non possono essere mai smontati salvo procurare una crisi di sistema. Si capisce quindi come mai siamo ora entrati nella fase dei dati macro americani politicizzati, dove Pil, Consumer Spending e Job Market non possono mai evidenziare alcun segno di cedimento (salvo essere sottoposti poi a massicce revisioni al ribasso a distanza di mesi dalla pubblicazione). Credo che pochi investitori siano consapevoli che la Corporate America può oggi permettersi un sistema contabile per Wall Street. Gli utili trimestrali sono infatti costruiti su risultati “pro forma”, in modo da pubblicare risultati prevalentemente stimati che vanno poi confermati, mesi dopo, nei formulari predisposti dalla SEC (10K per i profitti annuali, 10Q per quelli trimestrali), questo per consentire alle società quotate una certa “flessibilità” nella pubblicazione dei risultati da dare in pasto a Wall Street. In questo contesto, risulta quindi emblematico il caso delle recenti settimane, dove il rischio strisciante di cedimento dei consumi e di debolezza del mercato del lavoro che era emerso negli ultimi mesi, è stato spazzato via da “sorprendenti” dati oltre le attese puntualmente pubblicati per cancellare ogni dubbio. Nonostante le ripetute politiche fiscali di sostegno per puntellare questo modello economico-finanziario costruito sui carry trades e finanza speculativa (25 punti di Pil solo negli ultimi tre anni), il sistema non riesce più a produrre ricchezza e le spinte populiste si stanno facendo sempre più forti in tutto il mondo occidentale e continueranno a crescere.
Crescita economica mondiale al ribasso
Credo che la strategia mirata a sostenere le bolle speculative americane (che necessitano ormai di tutta la liquidità internazionale) continuerà ad esercitare una compressione al ribasso della crescita economica mondiale, dato che la massa di liquidità globale iniettata negli Stati Uniti è servita e continua a servire solo a sostenere finanza speculativa che non produce crescita diffusa, distrugge il moltiplicatore fiscale e monetario, e crea posizioni monopolistiche. La poca crescita che abbiamo serve dunque ad alimentare i profitti di coloro che hanno tali posizioni. Questo meccanismo metterà in crisi l’equilibrio instabile sul quale abbiamo costruito il modello capitalistico di sviluppo economico occidentale dopo la crisi del 2001. Essere bullish su questo modello di sviluppo è come essere bullish sulla “fine del mondo”, dato che il meccanismo è insostenibile e il suo cedimento è inevitabile e avrà ripercussioni impensabili. L’ulteriore problema è che la stratosferica dimensione di debito del sistema, costruito su finanza speculativa e carry trades ormai in corso da vent’anni, rende tale meccanismo impossibile da fermare senza provocare comunque una profonda crisi ed è dunque obbligato a percorrere la sua strada fino in fondo, senza alcuna possibilità di correzione della rotta. Nel frattempo la narrazione rimane “necessariamente” concentrata su quanto la Fed ridurrà i tassi, nell’illusione collettiva che i fondamentali sottostanti potranno modificarsi in meglio solo in base alla variazione dei Fed Funds. Il panico di agosto è solo un piccolo esempio di cosa accadrà quando la “fiducia” nel modello cederà ed evidenzia quanto sia fragile e non solido il sistema nel quale abbiamo riversato la più grande “scommessa long” degli ultimi cento anni.

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