Maastricht: solidi criteri o vaghe promesse?

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Negli ultimi quattro anni, il nuovo debito italiano è sceso dal 10 al 7% del PIL. La tendenza è positiva, ma l’Italia rimane lo Stato membro dell’UE con i deficit più elevati dallo scoppio della pandemia nel 2020. Anche altri Stati membri stanno lottando con montagne di debiti: nel caso dell’UE, l’indebitamento pubblico è rimasto ultimamente su livelli storicamente elevati, nell’ordine dell’82% del PIL. E il rapporto debito pubblico/PIL dei 20 Stati dell’euro è ancora più alto, intorno al 89%.

Il 7 febbraio 1992 a Maastricht i dodici Capi di Stato e di Governo dell’allora Comunità Europea non solo adottarono il trattato che istituiva l’UE e introduceva un’unione economica e monetaria, ma concordarono anche i criteri che i paesi dell’unione avrebbero dovuto soddisfare, gettando le basi per una politica monetaria comune. Secondo i criteri di Maastricht, il nuovo debito annuale massimo degli Stati dell’UE non avrebbe dovuto eccedere il 3% del PIL. Inoltre, era previsto un rapporto debito pubblico/PIL non superiore al 60%. Tuttavia, i paesi dell’euro hanno ripetutamente infranto le regole.

Il deficit di bilancio della Francia, ad esempio, è rimasto al di sotto del 3% in soli sette anni fra il 1995 e il 2023. In Portogallo, il governo ha chiuso per la prima volta un esercizio finanziario con un deficit (di poco) inferiore al 3% solo nel 2007. Sono state fatte eccezioni anche per Belgio e Italia – due paesi fortemente indebitati, che già alla fine degli anni ‘90 quando fu fondata l’Unione monetaria avevano un debito pubblico superiore al 100% del PIL. Lo stesso vale per la Grecia, che al momento dell’adesione all’Unione ovviamente non era “in regola”. In realtà, sembra che il limite del deficit abbia completamente bypassato il paese, che tra il 1995 e il 2015, ha registrato un deficit medio di bilancio del 7,9% l’anno. A partire dal 2016 e per alcuni anni, il governo di Atene è riuscito ad archiviare un’eccedenza di bilancio, che tuttavia è chiaramente riconducibile ai miliardi di prestiti agevolati che la Grecia ha ricevuto sulla scia della crisi dell’euro.

Di conseguenza, sei Stati membri dell’UE – Belgio, Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna – che insieme rappresentano oltre il 40% della performance economica dell’Unione, hanno ora un rapporto debito pubblico/PIL superiore al 100%. È evidente quindi che la disciplina fiscale di molti Stati membri dell’UE è stata troppo permissiva. Durante la crisi del coronavirus, le regole sono state addirittura sospese fino alla fine del 2023 e si è discusso molto sulla loro effettiva utilità.

A febbraio Valdis Dombrovskis, vicepresidente esecutivo della Commissione europea, ha accolto con favore l’accordo politico sul nuovo quadro normativo dell’UE, approvato dal Parlamento europeo in aprile. A suo avviso, le regole proposte miglioreranno la sostenibilità delle finanze pubbliche e promuoveranno una crescita duratura. A prima vista i capisaldi principali rimangono invariati e i criteri di Maastricht non verranno toccati, a essere motivo di controversia sono invece i contenuti: l’unica cosa che cambierà con l’introduzione del nuovo quadro dell’UE è il modo in cui verrà garantito in futuro il rispetto dei limiti di indebitamento e deficit.

In futuro, ci sarà una “fase di adeguamento” di 4 anni, prorogabile di altri 3 se ritenuto opportuno dal Consiglio dell’UE. Durante questa fase il livello di debito di uno Stato membro fortemente indebitato andrà ricondotto su un percorso di riduzione sostenibile attraverso misure appropriate. Anche altri fattori sono destinati a garantire una maggiore flessibilità. Ad esempio, la titolarità nazionale deve essere rafforzata dando agli Stati membri un maggiore margine di manovra nella definizione dei propri percorsi di aggiustamento di bilancio e negli impegni di riforma e investimento. In questo contesto, gli Stati membri hanno anche la possibilità di richiedere la presentazione di un piano nazionale rivisto se circostanze oggettive ne impediscono l’attuazione, ad esempio in caso di cambio di governo.

Questi requisiti appaiono problematici, almeno a nostro avviso. Un possibile punto di critica è che un cambio di governo può portare a una revisione del piano nazionale e nel caso di una fase di aggiustamento che può durare fino a sette anni, è molto discutibile che i governi possano accompagnare tale fase di aggiustamento dall’inizio alla fine. Ciò non garantisce continuità e sicurezza di pianificazione, inoltre un margine di manovra (troppo) ampio per gli Stati membri potrebbe addirittura vanificare il desiderio di una maggiore disciplina di bilancio.

I percorsi pluriennali di adeguamento pianificati vanno monitorati. L’attuazione specifica prevede che la sorveglianza sul bilancio si basi su un unico indicatore operativo – la spesa primaria netta – ossia la spesa pubblica che esclude, in particolare, i pagamenti di interessi da parte del governo. Tuttavia, ridurre la valutazione della situazione di bilancio di uno Stato membro a questo solo aspetto è problematico, come già espresso dalla Corte dei conti federale tedesca lo scorso anno. Per capirne il motivo, basta guardare ancora una volta la situazione dell’Italia: tra il 2000 e il 2019, il governo italiano ha generato un avanzo primario (equilibrio di bilancio prima della spesa per interessi) in 18 anni su 20, e anche piuttosto generoso, con una media dell’1,4% del PIL. Tenuto conto della spesa per interessi, però, il bilancio è stato esclusivamente in deficit, in media di circa il 3% del PIL . È quindi improbabile che semplificare il monitoraggio della politica di bilancio a un unico indicatore, che esclude il criterio altamente rilevante degli interessi passivi, renda giustizia a una visione olistica delle finanze pubbliche.

Due misure dovrebbero aiutare a far rispettare meglio le regole. Innanzitutto, gli Stati membri interessati dovranno presentare una relazione annuale sui loro progressi nell’adempimento degli impegni presi. In secondo luogo, la Commissione istituirà un “conto di controllo” per registrare le deviazioni dal percorso di bilancio concordato. Se il saldo del conto di controllo supererà una determinata soglia numerica e il debito dello Stato membro eccederà il 60% del PIL, la Commissione provvederà a redigere un rapporto per valutare l’opportunità di avviare una procedura per deficit eccessivo. In casi estremi, tale procedura potrà comportare anche il pagamento di una sanzione.

I tentativi di imporre la disciplina attraverso la procedura per deficit eccessivo non sono una novità, ma è mancata la volontà politica di agire con disciplina e applicare le dovute sanzioni. Perché le cose dovrebbero andare diversamente in futuro? Tanto più che alla Commissione vengono concesse ampie libertà nel valutare l’esistenza o meno di un deficit eccessivo: se non vi sono miglioramenti alla situazione di bilancio, ma per “giuste cause” la Commissione può chiudere un occhio su un eventuale deficit eccessivo. Inoltre, una procedura per deficit eccessivo può rappresentare una minaccia politica.

Il quadro recentemente pubblicato per le nuove regole di bilancio dell’UE solleva quindi molte domande. In un’ottica futura, il fatto che gli oneri finanziari degli Stati finiranno per aumentare anziché diminuire renderà più difficile il consolidamento delle finanze pubbliche. In futuro, gran parte degli Stati membri dell’UE dovrà fare i conti con un incremento dei “fardelli” demografici. In Germania, ad esempio, si stima che il numero di persone in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni) si ridurrà di circa il 10% entro il 2035. In Italia, il calo potrebbe arrivare al 13%. L’aumento della spesa sociale, sotto forma di un incremento significativo delle prestazioni pensionistiche, potrebbe quindi scontrarsi con una sempre più critica carenza di manodopera qualificata. Inoltre, la guerra in Ucraina ha messo in discussione l’architettura della sicurezza europea e richiederà probabilmente una spesa maggiore nel lungo termine. Anche l’obiettivo della Nato di una spesa annuale per la difesa pari al 2% del PIL è ora percepito come molto più vincolante rispetto a qualche anno fa.

Gli sforzi dell’UE per rivedere e applicare in modo credibile le regole fiscali sono di per sé lodevoli, ma il notevole margine di manovra solleva dei dubbi su un rispetto duraturo e credibile dei criteri di Maastricht. Alla luce dei crescenti oneri previsti in futuro, il limite di deficit del 3% e il rapporto di indebitamento auspicato del 60% del PIL potrebbero rimanere solo vaghe promesse. E allora cosa accadrà? Il tanto desiderato consolidamento delle finanze pubbliche resta molto incerto. È poco chiaro fino a che punto si possano effettivamente incentivare delle riforme e definire le giuste priorità di spesa pubblica. Se i criteri di Maastricht rimarranno solo vaghe promesse, le banche centrali dovranno probabilmente restare al fianco degli Stati altamente indebitati come “sparring partner” ancora per molto tempo a venire. Solo loro, infatti, sono in grado di assicurare attraverso bassi tassi d’interesse reali la sostenibilità di quelle che, ahimè, sono diventate montagne di debiti degli Stati membri.