UBS WM – weekly comment: Poco ma si muove (l’Europa)

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Stretta tra la prospettiva di maggiori dazi da parte degli Stati Uniti, le
relazioni in bilico tra l’Ucraina e il presidente americano Donald Trump, e una
stagnazione economica che si trascina da due anni, l’Europa ha finalmente
annunciato alcune misure di rilancio.

Anche se probabilmente si tratta di iniziative troppo piccole, frammentate
e forse anche deludenti nella modalità, sono comunque destinate ad avere
qualche impatto economico che cerchiamo di esaminare.

La presidente della Commissione Europea, von der Leyen, ha annunciato
un piano per la difesa con stanziamenti fino a un massimo di 800 miliardi
di euro. La realtà, tuttavia, è che l’unica parte immediatamente tangibile
è rappresentata da 150 miliardi di euro nella modalità di prestiti agli Stati
membri.

Il resto, quindi 650 miliardi, è per il momento solo un calcolo teorico di
possibile ulteriore spesa allargando i parametri fiscali, esercizio che però
potrebbe mettere i singoli Paesi in cattiva luce sui mercati e portare a sottrarre
risorse ad altre iniziative destinate alla crescita.

Nel concreto, alcuni Stati membri, per fare un esempio la Francia, che ha già
un disavanzo di bilancio superiore al 5% del PIL, potrebbero avere difficoltà a
raccogliere fondi aggiuntivi senza suscitare preoccupazioni tra gli investitori
e accelerare i declassamenti delle agenzie di rating.

Inoltre, rimanendo su un piano di investimenti nazionali, è possibile che
una parte di questa spesa si riveli subottimale per via di mancanza di
coordinamento, duplicazioni e mancanza di innovazione tecnologica che
richiede investimenti ingenti e centralizzati.

L’impatto sulla crescita dovrebbe essere positivo ma limitato. Tipicamente, gli
investimenti nella difesa hanno un impatto modesto sul PIL europeo, anche
perché in una parte consistente si trasformano in importazioni. Ad esempio,
si stima che attualmente circa la metà della spesa per la difesa europea vada
agli Stati Uniti.

Di maggior portata, da un punto di vista economico, sono gli annunci
provenienti dalla Germania, che ha tenuto elezioni anticipate lo scorso
febbraio. Dopo una stagnazione durata cinque anni, i partiti più propensi a
formare il prossimo governo di coalizione del Paese, l’Unione di centrodestra
tra CDU-CSU e la SPD di centrosinistra, hanno annunciato cambiamenti
radicali nella politica fiscale.

In particolare, hanno annunciato un fondo «fuori bilancio» di 500 miliardi
di euro per infrastrutture. Questo fondo avrebbe una durata di 10 anni e, in
media, fornirebbe fondi aggiuntivi per oltre l’1% del PIL all’anno.

Inoltre, è stato proposto di consentire ai Länder (stati) di registrare disavanzi
fiscali. A questo si aggiunge la proposta di escludere dal deficit la spesa per
la difesa superiore all’1% del PIL.

Sorprende che un tale incremento di spesa pubblica non venga legato a
un piano di riforme in aree come il mercato del lavoro, la riduzione della
burocrazia o le liberalizzazioni.

La crescita tedesca potrebbe comunque cambiare radicalmente traiettoria,
tornando sopra all’1% almeno per qualche anno con un deficit che
aumenterebbe di quasi 3 punti percentuali rispetto al livello attuale.

Non si tratta di una partita già chiusa. La proposta deve ancora passare
attraverso il parlamento federale, il Bundestag. In una mossa altamente
insolita e criticata da alcuni, i partner della coalizione vogliono approvare
questi cambiamenti nel Bundestag uscente, che può riunirsi fino a un mese
dopo le elezioni, e non in quello appena eletto.

In questo modo, l’Unione e l’SPD avrebbero la maggioranza dei due terzi
necessaria per modificare la costituzione con il supporto dei Verdi, aggirando
una possibile minoranza di blocco nel nuovo Bundestag.

Anche un accordo di pace sull’Ucraina darebbe impulso all’economia europea
grazie al calo dei prezzi dell’energia e al miglioramento del clima di fiducia di
consumatori e imprese. Le aziende europee potrebbero poi partecipare alla
ricostruzione, che secondo la Banca mondiale richiederà almeno 500 miliardi
di dollari.

Tuttavia, a seconda della struttura dell’accordo e delle modalità di
finanziamento della ricostruzione, l’operazione potrebbe comportare
maggior debito.

Non è trascurabile nemmeno l’annuncio, sempre della settimana scorsa,
di una prima virata della Commissione Europea nei confronti del settore
automobilistico, che si trova in forte difficoltà.

Bruxelles ha concesso maggiore flessibilità in relazione agli obiettivi di
riduzione delle emissioni di CO2, che di fatto verranno spalmati su tre anni,
ha approvato supporti finanziari per le materie prime delle batterie per 1,8
miliardi di euro e finanziamenti per la guida autonoma per 1 miliardo.

D’altra parte, la Commissione ha ribadito che “l’obiettivo di zero emissioni
di CO2 per nuove auto e furgoni nell’UE entro il 2035 rimane invariato”,
almeno per ora, prima di eventuali cambiamenti nella revisione programmata
per il prossimo anno.

Infine, giovedì scorso, come da attese, la Banca Centrale Europea (BCE) ha
tagliato i tassi di interesse di 25 punti base portando il tasso di deposito al
2,5%. Con l’inflazione in ritirata, la BCE dovrebbe continuare il suo ciclo di
tagli anche il mese prossimo.

I mercati obbligazionari hanno risposto agli annunci dell’UE e della Germania
con un’impennata dei rendimenti, riflettendo la prospettiva di maggiori
emissioni obbligazionarie. I rendimenti dei Bund a 10 anni sono aumentati
dal 2,4% fino a sfiorare il 3%. La correzione si è allargata all’intero comparto.

A nostro avviso, i mercati obbligazionari hanno reagito in modo eccessivo.

Questa ci sembra un’opportunità di acquisto per obbligazioni corporate di
buona qualità a medio termine sulle quali ci aspettiamo che i rendimenti
diminuiscano.

L’annuncio di una spesa fiscale aggiuntiva è stato ben accolto dalla borsa
tedesca e da quelle europee. Più infrastrutture, maggiori spese per la difesa
e investimenti nell’aerospaziale dovrebbero spingere in particolare il settore
industriale.

Dopo il recente rally dell’euro contro il dollaro e un cambio che si è
portato rapidamente vicino a 1,09, crediamo che il potenziale ulteriore
rafforzamento dell’euro sia limitato e che, invece, un arretramento sia
probabile, considerando anche la minaccia di dazi statunitensi.