Hard landing o soft landing?

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Le banche centrali sono alle prese con il compito gravoso di frenare l’economia senza però innescare una recessione. Gli strumenti di politica monetaria sono poco incisivi e i loro effetti sono percepiti con un ritardo di mesi. Le pressioni sul fronte politico possono diventare incalzanti, raramente i trend economici sono chiari nel momento in cui emergono e per formulare previsioni accurate occorrono maestria, dati scientifici e un po’ di fortuna.

Non sorprende che gli “hard” landing dell’economia siano più frequenti dei “soft” landing nelle fasi in cui le banche centrali inaspriscono la loro politica. Il compito delle autorità monetarie può essere paragonato alla sfida di riportare un razzo a terra dallo spazio e farlo atterrare delicatamente in verticale su una piattaforma in mezzo all’oceano. È possibile, ma tutt’altro che facile.

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Oggi ci si chiede non tanto se l’Eurozona riuscirà a scongiurare la recessione, quanto piuttosto se tale eventualità dipenderà dagli sviluppi sul fronte geopolitico più che dagli interventi della Banca Centrale Europea. Vale inoltre la pena di domandarsi se la Federal Reserve USA abbia una possibilità per combattere.

Gli ostacoli sono significativi. I funzionari della Fed intendono rallentare nettamente l’inflazione, ora ai massimi quarantennali, senza che si verifichi una risalita degna di nota della disoccupazione che oggi si attesta su livelli prossimi ai minimi da 50 anni a questa parte. Si tratterebbe di un’operazione complessa persino nei periodi più favorevoli. Ma la Fed deve anche fare i conti con forze esterne in grado di modificare le prospettive, tra cui le ripercussioni su crescita e inflazione della politica zero Covid della Cina e dell’invasione dell’Ucraina.

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I pessimisti vogliono prepararsi al peggio e rimarcano che di recente in un tratto della curva dei rendimenti USA si è registrata un’inversione (indice di una futura recessione) e a inizio 2022 il PIL USA ha già evidenziato una contrazione.

Tuttavia, tali prospettive sfavorevoli sono decontestualizzate. In primo luogo, se è vero che le inversioni della curva dei rendimenti precedono le recessioni, di norma tra i due eventi trascorre oltre un anno. E la contrazione del PIL USA nel primo trimestre è ascrivibile a una crescita delle importazioni molto più rapida di quella delle esportazioni (pertanto, non è indice di debolezza della domanda interna). Per di più, si è registrato l’incremento della spesa al consumo più consistente dall’estate scorsa – nonostante la diffusione di Omicron, la fine della corresponsione di assegni familiari e l’impennata del prezzo della benzina.

Vi sono buoni motivi per ritenere che negli Stati Uniti i consumi si manterranno resilienti. Le previsioni circa la pandemia di Covid sono più incoraggianti che mai, pertanto quest’estate le persone potranno uscire e spendere. E i fondi non dovrebbero mancare: i risparmi delle famiglie superano di circa $4.000 miliardi i livelli pre-pandemia. Tale situazione potrebbe comportare moderate pressioni sui prezzi (si pensi all’inflazione), ma al contempo favorire una prosecuzione della crescita reale, consentendo alla Fed di provare a ridurre la domanda di forza lavoro extra senza causare un aumento della disoccupazione.

La settimana prossima

La prossima settimana dal flusso di dati traspariranno le sfide che le autorità politiche e monetarie si trovano ad affrontare. Lunedì conosceremo i dati su immobilizzazioni, produzione industriale e vendite al dettaglio di aprile in Cina. Le stime di consensus puntano a un rallentamento generalizzato dovuto agli effetti negativi dei lockdown a Shanghai e Pechino.

Martedì sarà pubblicato il PIL preliminare per il primo trimestre del Giappone; gli analisti prevedono un’accelerazione dal 4,6% a fine 2021 al 5,8% (trimestrale, annualizzato). Dall’altra parte del mondo, l’Eurostat renderà nota la bilancia commerciale dell’unione monetaria. Anche a causa dell’impennata dei costi dell’energia, in febbraio il deficit commerciale dell’Eurozona aveva raggiunto €7,6 miliardi, ora tale dato potrebbe essere salito a €125,3 miliardi.

USA e Regno Unito saranno al centro dell’attenzione nell’ultima parte della settimana. Quanto agli Stati Uniti, verranno pubblicati i dati su vendite al dettaglio core (è attesa un’accelerazione), produzione industriale (è atteso un rallentamento) e vendite di abitazioni esistenti (è atteso un rallentamento). Nel Regno Unito verranno rese note inflazione dei prezzi di produzione (è attesa una moderazione) e vendite al dettaglio (è attesa una contrazione).

Contesto tecnico

Sulla scia della diffusione di un grande pessimismo, di condizioni di forte ipervenduto e di quattro settimane consecutive di deflussi dai fondi azionari, di recente l’S&P 500 è sceso sotto il minimo di marzo 2022. Di conseguenza, ha già evidenziato un andamento pressoché in linea con la definizione di mercato orso (un calo del 20%).

Negli USA, gli indici azionari chiudono di frequente ai minimi giornalieri, un trend indice di pressioni di vendita nell’area degli investimenti passivi (ETF). D’altro canto, l’attività di trading è stata nel complesso ordinata, persino nei giorni in cui la flessione ha coinvolto volumi elevati di titoli e finora non abbiamo riscontrato segnali di panic selling.

In ottica futura, un miglioramento sostenuto del contesto di mercato dipenderà da molteplici fattori la cui evoluzione è ancora incerta. Ad esempio una prossima inversione di tendenza dei prezzi delle materie prime, il minor vigore del dollaro USA, la mitigazione dei timori circa l’inflazione e la stabilizzazione dei tassi di interesse.