La Fed sospesa nel limbo

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Negli annali della storia economica, il nome di Jerome Powell sarà associato al primo rialzo, in quasi 30 anni, di 75 pb del tasso di riferimento della banca centrale statunitense. Una mossa del genere era già stata fatta nel 1994 da Alan Greenspan, allora presidente della Fed.

Ancorché importante, questo innalzamento dei tassi non ha destato alcuna sorpresa. L’accelerazione imprevista dell’inflazione a maggio ‘22, unita al forte aumento delle aspettative delle famiglie statunitensi relative al livello di inflazione a 5-10 anni, aveva infatti portato gli investitori ad anticipare ampiamente questo scenario, che potrebbe ripetersi anche a luglio.

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Da questo punto di vista, quindi, la Fed ha risposto alle aspettative. Ha anche rivisto al rialzo le sue prospettive di inflazione e il livello dei tassi di riferimento a fine anno, portandolo al 3,4% mediante un altro aumento di almeno 175 punti base, e ha corretto al ribasso le prospettive di crescita, declassate all’1,7% per il 2022 rispetto al 2,8% previsto nella riunione di marzo e al 4,0% in quella del dicembre 2021! Al di là di una nuova accelerazione della stretta monetaria che può sembrare preoccupante, questi elementi rivelano un lato piuttosto positivo: la Fed è decisa a lottare strenuamente contro l’inflazione e, benché consapevole del rischio che questo comporta per la crescita economica, non farà un passo indietro. Lo stesso messaggio era insito in alcune modifiche apportate al comunicato iniziale del FOMC.

Tuttavia, le dichiarazioni di Jerome Powell sono state molto meno leggibili. È tornato a parlare di un possibile soft landing che riduca l’inflazione senza però interrompere il percorso di crescita, e ha escluso qualsiasi rischio o volontà di innescare una recessione. Il presidente della Fed difficilmente avrebbe potuto fare un discorso diverso anche se risulta in qualche modo in contraddizione con la forte revisione al ribasso delle prospettive di crescita comunicate dal FOMC. Tanto più che Jerome Powell ha poi circostanziato le sue dichiarazioni spiegando, in diverse occasioni, che la traiettoria dell’economia statunitense era sempre più condizionata da elementi esogeni: il conflitto in Ucraina, il Covid in Cina, i prezzi del petrolio, i colli di bottiglia, ecc. Ha del resto riconosciuto che, pur essendo “molto attenta” a non spingersi troppo oltre, la banca centrale non poteva rischiare di non riuscire a ridurre l’inflazione. In altre parole, le dinamiche dell’inflazione prevalgono su quelle della crescita. È difficile, per gli investitori, orientarsi in questo gioco delle ombre in cui tutti, ottimisti o pessimisti, possono trovare conforto per le proprie opinioni. È forse questo che la Federal Reserve sta cercando in attesa di vederci, anch’essa, più chiaro.

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È un altro insegnamento che si può trarre dalla riunione della Fed. Sapevamo che sarebbe stata flessibile, che era “data dependant”, ovvero che si sarebbe adattata ai dati economici recenti. Raramente, però, era sembrata navigare così tanto a vista. Il primo esempio al riguardo è l’aumento dei tassi di 75 punti base – in reazione ai dati pubblicati pochi giorni prima – quando per diverse settimane aveva abbondantemente preannunciato un rialzo di 50 punti base.

Colpiscono, in particolare, i commenti di Jerome Powell riferiti sia alla crescita sia all’inflazione, che nell’ultima parte della sua conferenza stampa ha più e più volte ribadito “we just don’t know”. Manifestazione di onestà, che può avere i suoi pregi, o ammissione di impotenza di fronte a una situazione di cui pochi aspetti soltanto possono essere controllati dalla banca centrale? Entrambe, probabilmente, con una perdita finalmente abbastanza significativa di visibilità sul percorso di stretta monetaria statunitense e sulla capacità della Fed di risolvere l’equazione inflazione/crescita. Se qualche settimana fa la Fed sembrava avere la situazione sotto controllo, è oggi difficile rassicurare i mercati, già molto nervosi.