Populismi: le ragioni degli altri

Enrico Ascari -

Le vele del populismo sono gonfie, spinte da venti di burrasca. L’arrivo dei nuovi “barbari” non e? casuale e, forse, segna la fine di un’epoca. In tutto l’occidente, con la globalizzazione, sono in discussione anche i riferimenti culturali della “societa? aperta”.

Capire le ragioni degli altri puo? aiutare ad evitare gli errori del passato. Proveremo a farlo in tre successivi contributi: il primo generale, il secondo centrato sull’Europa, il terzo sulle vicende di casa nostra.

Corsi e ricorsi storici

Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino; dopo un decennio, nel 1999, nasceva l’Euro; ne passa un altro e il 2009 segna il culmine della grande crisi finanziaria, spartiacque tra la fase di ascesa e di declino della globalizzazione. Cosa ci riserva il 2019? Speriamo nulla di traumatico.

Ci piace scoprire gli eventi simbolici che scandiscono un’epoca. I segnaposto che segnano le svolte del percorso evolutivo. Sono semplificazioni. Cio? nonostante la comprensione di quello che accade, da Roma a Washington, dipende da una lettura critica delle modalita? dello sviluppo capitalistico e geopolitico nell’ultimo trentennio: l’era della globalizzazione, l’epoca della Cina e delle multinazionali, dei computer prima e dell’economia digitale poi. Che ha, non va mai dimenticato, migliorato le condizioni di vita di miliardi di persone, ma sacrificato, in termini relativi e spesso assoluti, quelle delle famiglie dei paesi occidentali.

Per l’Italia, il fanalino di coda nel mondo occidentale per crescita, complessiva o pro capite, e? stato un trentennio buttato al vento: eppure siamo stati i primi a rottamare le e?lite, con tangentopoli nel ’92; a innalzare un tycoon delle televisioni al rango di presidente del consiglio (per ben tre volte); a inventare il separatismo infine trasecolato in sovranismo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. E non e? colpa dell’Euro.

La svolta della grande crisi finanziaria (GFC)

Il disastro di dieci anni fa, di cui il tempo attenua il ricordo, e? stato un punto di svolta, lasciando profonde ferite non rimarginate nella societa? contemporanea, di natura sociale, prima che economica. Paradossalmente, ma non troppo, i danni maggiori li hanno subiti gli europei. Nel vecchio continente i referenti politici hanno trasformato l’incombente catastrofe delle banche tedesche e francesi in crisi del debito sovrano dei paesi mediterranei, svelando gli interessi dei veri padroni della UE e l’inadeguatezza delle e?lite nazionali. I difetti della costruzione europea sono stati messi a nudo.

La GFC ha evidenziato le controindicazioni di uno sviluppo capitalistico basato sull’accelerazione della globalizzazione tecnologica e finanziaria. Negli anni successivi gli economisti hanno detto di tutto sulle cause della crisi e sui possibili rimedi, occupandosi diffusamente anche di temi poco amati dall’accademia, come quelli della distribuzione della ricchezza e del reddito. Nel frattempo la giostra ha continuato a girare senza visibili discontinuita?. Dieci anni dopo possiamo affermare che le politiche economiche seguite dopo la crisi, soprattutto nella zona Euro, non hanno ridotto gli squilibri distributivi. Piuttosto e? diminuita la credibilita? dei ritornelli declinati dagli economisti e dai policy makers liberali a partire dalla perennemente evocata necessita? delle “riforme dei mercati”.

Proprio la GFC ha dato vita, con “Occupy Wall Street” ai primi timidi movimenti politicizzati e organizzati di critica del “Washington Consensus”, del “turbocapitalismo”, dei “banksters”. Un seme che non ha dato i frutti sperati dalla sinistra piu? o meno liberal ma che ha ovunque disseminato prima il sospetto, poi il rifiuto, infine il disprezzo per le e?lite e i loro punti di riferimento culturali, il neoliberismo o il liberalismo democratico. Un sentimento che si allarga a macchia d’olio, alimentato dalla perdita di rilevanza economica dei nuovi proletariati del ceto medio e sobillato ad arte dai nemici palesi e occulti della “societa? aperta”. Direbbe Crozza, in una delle sue divertenti imitazioni, che la perdita di credibilita? delle vecchie classi dirigenti e? “fattuale”.

Populismi all’attacco

L’intero Occidente sembra sotto scacco, in preda a pulsioni nazionaliste, apparentemente incontrollabili. C’e? chi vede, dalle opposte estreme sponde politiche, un concentrico “…virulento attacco sovranista ai principi della societa? libera occidentale (il libero scambio, la democrazia rappresentativa, lo stato di diritto) e alle istituzioni sovranazionali che quella societa? libera difendono”. Si tratta, secondo altri “di una forma tutta nuova di populismo che ha le radici nell’ignoranza, nel pregiudizio, nella paura, nell’isolazionismo”.

E? ormai un fenomeno sistemico, di cui Donald Trump e? l’espressione piu? alta, il punto di riferimento culturale e comportamentale per i tanti piccoli cloni dall’ego straripante, che a tutte le latitudini vorrebbero replicarne le gesta. Sempre piu?, in Italia e altrove, comandano “quelli che a scuola occupavano stabilmente gli ultimi banchi”. E? la metafora che tiene insieme tutto: dagli accattivanti manipolatori del consenso, agli spregiudicati giocolieri dei numeri, a quelli che, francamente, sono solo stupidi.

La tentazione di demonizzare, schernire o sottovalutare le nuove classi dirigenti e i loro elettori e? forte, ma va evitata. Se queste persone hanno conquistato il potere o stanno per farlo, vuol dire che sono diventate di moda, sono “popolari”. Evidentemente c’e? piu? di un perche?. Forse l’evoluzione socio-economica in corso nell’Occidente e? da leggere mettendo da parte l’arroganza intellettuale e riconoscendo la possibilita? che esistano diversi punti di vista, plurime, parziali verita?. Anche perche?, davvero, non ne mancano le ragioni.

Economia: non conta il PIL, ma chi lo mangia

“E? l’economia, stupido!”: la vecchia battuta che risale ai tempi del presidente americano Bill Clinton, e? ancora d’attualita? ma va reinterpretata. La tipica lettura che enfatizza la crescita del prodotto interno lordo e dell’occupazione e? parziale e inadeguata. I paesi che sono usciti meglio e prima dalla GFC sono quelli che alla svelta si sono riadeguati ai ritmi della globalizzazione economico-finanziaria. O meglio, che continuano a dettarne le regole, sfruttando i vantaggi comparati in un mondo sempre piu? digitalizzato: Stati Uniti e Germania da una parte, Cina (in parte) dall’altra. Un apparente paradosso considerando che le radici della crisi sono state alimentate dalla bolla dei mutui subprime statunitensi, dal folle livello di leva finanziaria delle banche europee, a partire da quelle tedesche, francesi e inglesi, dagli squilibri globali tra risparmio e investimento.

La maggiore o minore crescita economica non spiega pero? il dilagare dell’infezione populista nel mondo occidentale che coinvolge tutti, vincitori e sconfitti, da Washington a Roma, passando per Londra, Parigi e Berlino. Non spiega le pulsioni sovraniste, il ritrovato gradimento per il protezionismo, le convergenze di opposti e confusi radicalismi. Il collante del malessere sociale a tutte le latitudini e? la perdita di rilevanza e l’impoverimento del ceto medio, non la dinamica del PIL o del reddito reale pro-capite o di altre misure tradizionali di benessere. Dove la produttivita? e? cresciuta, sia pure a ritmi molto piu? contenuti che in passato, i vantaggi si sono sempre piu? concentrati nelle mani dei pochissimi padroni delle moderne “ferriere” del digitale e dei parassiti della finanza che ne gestiscono la montante incommensurabile ricchezza. La dicotomia tra stato e mercato e? obsoleta: e? ormai evidente che “i vincitori prendono tutto”, dagli influencer sui social media agli oligopolisti che consolidano quei mercati la cui “liberta?” rimane chimericamente al centro di un modello di democrazia liberale in crisi.

Il dibattito sulla disuguaglianza dei redditi si e? concentrato sulla rapida crescita delle entrate per pochissimi. Desta scandalo che una manciata di plutocrati controllino la meta? della ricchezza globale. Ma sono i redditi stagnanti per la grande maggioranza delle famiglie, i miseri stipendi dei neolaureati, l’allungamento della speranza di vita con pensioni modeste, i fattori politicamente determinanti, che minano alle radici la credibilita? di chi propone soluzioni ragionevoli ma inadeguate.

Un recente studio del McKinsey Global Institute ha confermato ancora una volta che per la stragrande maggioranza delle famiglie nei paesi Occidentali la crescita del reddito reale si e? fermata da un pezzo. I dati sono simili ovunque, pur considerando le diversita? dei sistemi fiscali e del welfare e le peculiarita? dei trasferimenti pubblici, con l’unica eccezione della Svezia. Lo studio conferma che redditi stagnanti o in calo non agiscono solo come un freno alla domanda di consumi e alla crescita del PIL: alimentano soprattutto il malcontento sociale e politico, poiche? i cittadini perdono fiducia nelle strutture economiche esistenti. Indagini in diversi paesi hanno rivelato che le persone con redditi in declino tendono a considerare l’immigrazione, il libero scambio e l’apertura dei mercati molto piu? negativamente di quelle i cui redditi stanno crescendo.

I potenti della terra, quelli che ogni anno si ritrovano a Davos, lo hanno capito da tempo; non hanno pero? soluzioni credibili da offrire. A parte qualche eccezione, come Donald Trump che ha colto in fretta il cambiamento in atto. Nel cittadino comune cresce la consapevolezza che siano loro (i potenti) il problema. Rimane un’unica rabbiosa risposta: il voto contro le soluzioni proposte dai partiti politici tradizionali, visti come contigui, collusi con il “sistema”, a prescindere dalla loro collocazione politica. Questo fenomeno, evidente soprattutto in Europa, e? testimoniato dalle clamorose sconfitte dei partiti di sinistra e dalle ripetute batoste dei partiti al governo. Non mancano gli esempi fin troppo noti: Brexit nel Regno Unito, le brucianti sconfitte della Clinton alle presidenziali USA e di Renzi al referendum e alle successive elezioni politiche, la stessa vittoria di Pirro di Macron, che rischia, a 15 mesi da un travolgente successo elettorale, di essere travolto dalla rabbia dei “gilet gialli”.

Wolfgang Munchau, editorialista del Financial Times, afferma che “Ogni sistema che si lascia indietro il 60% delle famiglie non puo? prima o poi non fallire. E? l’ironia finale: il liberalismo crolla a causa delle forze di mercato” che sono ormai fuori controllo: il capitalismo moderno non garantisce piu? le pari opportunita? (“ascensore sociale”, il “campo da gioco livellato”), ma favorisce i “big guys” a danno di artigiani e piccola impresa.

Munchau, come altri, vede delle analogie tra la situazione attuale e il fallimento dell’ordine liberale nella Germania di Weimar: l’ascesa dei cartelli industriali e la parallela distruzione del ceto medio dell’epoca. D’altra parte anche la propaganda degli oppositori, inconsapevolmente, utilizzerebbe oggi gli stessi “…argomenti, spesso con le stesse parole, che, negli anni trenta/quaranta, usavano i nazisti”. Si tratta di opinioni discutibili, sia perche? il confronto storico e? sempre arbitrario, sia perche? implicitamente sviliscono all’eccesso le ragioni, che pur ci sono, degli elettori che hanno deciso di farla finita con la solita minestra.

A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, l’evento che per alcuni avrebbe dovuto segnare la “fine della storia”, con la definitiva vittoria della democrazia e del mercato sull’economia centralizzata, il modello di sviluppo capitalistico sembra in crisi di credibilita? e consenso.

Il tracollo del sistema finanziario del 2008 e le modalita? utilizzate per salvare le banche e i banchieri, giuste o sbagliate che fossero, hanno rafforzato la convinzione, nell’uomo della strada, che il sistema fosse truccato.

Tutto cio? e? stato ancora piu? vero in Europa, dove le istituzioni e la moneta unica hanno rappresentato, oltre e prima dei governi nazionali, il colpevole perfetto, a cui attribuire tutte le responsabilita?. Non senza qualche ragione.

Incombono le prossime elezioni europee: sara? il 2019 un altro anno che rimarra? negli annali?


Enrico Ascari – membro del Comitato Investiment – Assiteca SIM