Poco margine di errore

Matteo Ramenghi -

La crisi finanziaria del 2008 e la successiva crisi del debito pubblico nell’eurozona hanno portato a un deterioramento generalizzato dei rating sovrani, tanto che oggi solo una manciata di Paesi mantiene un rating immacolato AAA con tutte le agenzie (Germania, Paesi Bassi, Svizzera, Norvegia, Svezia, Australia, Canada, Danimarca e Lussemburgo).

Non sono mancati i downgrade a effetto, talvolta considerati irriverenti, e oggi Francia, Regno Unito e Stati Uniti si trovano al livello AA. Nel Sud Europa, la Spagna si trova su un livello di singola A – per intenderci, prima della crisi finanziaria vantava una AAA – mentre Italia e Portogallo si attestano trovano più in basso, al livello BBB, e mantenere questo livello non è scontato.

In effetti, negli ultimi dieci anni solo pochissimi governi a livello mondiale hanno ridotto l’indebitamento (inteso come rapporto tra debito pubblico e PIL): Germania, Svizzera, Norvegia e Svezia. Sicuramente sono stati aiutati anche da un costo del debito vicino (e talvolta inferiore) allo zero, dovuto alla corsa degli investitori all’acquisto dei loro titoli considerati più sicuri in tempi burrascosi.

Con il ritardo e la parsimonia che le caratterizza, lo scorso anno le agenzie di rating hanno migliorato il rating del debito pubblico di alcuni dei Paesi che avevano sofferto di più durante la crisi finanziaria: Spagna, Portogallo e Grecia. Hanno riconosciuto quindi gli sforzi fatti per stabilizzare le finanze pubbliche e le riforme di natura economica.

L’Italia sembrava muoversi nella stessa direzione, ma il rapporto con i mercati e le agenzie di rating si è incrinato per via dell’aumento del deficit, in seguito all’introduzione del reddito di cittadinanza e di quota 100. E sono arrivati diversi downgrade del rating. L’impatto sul mercato è evidente: oggi l’Italia paga interessi che sono quasi il triplo della Spagna e oltre il doppio rispetto al Portogallo.

Non bisogna essere disfattisti: le banche centrali continuano a dare una mano, almeno per ora. Sia la Federal Reserve che la BCE detengono quasi un quarto del debito pubblico delle rispettive aree economiche e continueranno diligentemente a reinvestire le obbligazioni che giungono a scadenza. Inoltre, i bassi tassi d’interesse implicano che man mano che i titoli di Stato scadono vengono sostituiti da nuove emissioni con cedole inferiori, quindi il costo complessivo del debito si riduce – in misura maggiore per i Paesi che vengono considerati più virtuosi, minore per chi soffre uno spread elevato. Infine, la maggior parte degli Stati ha approfittato degli anni di liquidità illimitata e della ricerca di rendimento da parte degli investitori obbligazionari per allungare le scadenze medie, rendendo il debito meno vulnerabile a un peggioramento temporaneo delle condizioni di mercato.

Occorre però essere realisti. A questo punto del ciclo economico, non ci si possono aspettare regali da parte del mercato e delle agenzie di rating. Per contenere i costi di finanziamento, qualsiasi Stato – a partire dall’Italia – dovrà dimostrare disciplina fiscale e politiche economiche virtuose e trasparenti. Infatti, durante la prossima recessione, augurandosi che sia il più tardi possibile, gran parte dei Paesi europei avrà uno spazio di manovra limitato e anche la BCE disporrà di meno munizioni rispetto al recente passato.

L’Italia si trova sul livello più basso del rating investment grade. Scivolare nella categoria successiva, high yield, significherebbe far scattare volumi elevatissimi di vendite da parte di fondi ed ETF, con un conseguente aumento dei rendimenti e dello spread e le evidenti ricadute per l’economia. Inoltre, finire nella categoria high yield implica uscire dall’universo investibile da parte della BCE, che in quel caso non potrebbe più aiutarci. Non ce lo possiamo permettere.


Matteo Ramenghi – Chief Investment Officer – UBS WM Italy