Cambiare canale

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La rete televisiva britannica Sky News ha lanciato un canale «Brexit Free», che non trasmette notizie sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (UE). Ma, mentre i telespettatori locali possono permettersi di cambiare canale in qualsiasi momento, gli investitori si vedono spesso costretti a seguire con attenzione tutto ciò che fa muovere i mercati ogni giorno.
Se le dispute commerciali verranno risolte e si giungerà a un accordo sulla Brexit, gli investitori potranno finalmente cambiare canale e passare dalla geopolitica ai fondamentali? E in tal caso, si troveranno a guardare un thriller o un film dell’orrore?

Innanzitutto, è ancora presto per sapere se le tensioni commerciali si risolveranno, poiché non è ancora stato firmato un accordo tra Washington e Pechino, l’Europa ha minacciato ritorsioni contro i recenti dazi statunitensi e il dibattito su Hong Kong in corso al Congresso americano rischia di complicare ulteriormente la situazione. Inoltre, gli indicatori economici e gli utili aziendali rimangono contrastanti. I profitti potrebbero deludere le attese di consenso, in particolare nell’eurozona e nei mercati emergenti. Infine, benché vi siano motivi di ottimismo circa gli stimoli fiscali, ci sembra poco probabile che vengano varate importanti misure espansive, a meno che l’economia accusi un pesante deterioramento.

Nel complesso continuiamo a concentrarci sui rendimenti azionari, più che puntare su un rialzo delle quotazioni. È senz’altro possibile che le azioni si portino finalmente al di sopra dell’intervallo di scambio in cui sono confinate da sei mesi, ad esempio nel caso di una sorpresa positiva nell’ambito dello scontro commerciale tra Stati Uniti e Cina, come la sospensione a data da destinarsi dell’aumento dei dazi previsto per dicembre, o di un recupero più solido del previsto del settore manifatturiero. Tuttavia, dopo un anno brillante per i portafogli bilanciati, riteniamo prudente analizzare con spirito critico le attuali prospettive delle valutazioni, della crescita e degli sviluppi geopolitici.

Il nostro attuale posizionamento include un modesto sottopeso azionario complessivo, che è il risultato di un sovrappeso sulle azioni statunitensi rispetto a quelle dell’eurozona, una posizione di valore relativo sulle obbligazioni dei mercati emergenti in valuta forte rispetto alle azioni locali e un’esposizione rialzista alla sterlina britannica.

Relazioni tra Stati Uniti e Cina

Il Presidente Trump appare ora più disposto a prendere in considerazione un accordo parziale incentrato sul rinvio degli aumenti dei dazi statunitensi, a fronte di un incremento degli acquisti cinesi di prodotti agricoli americani. L’atteggiamento più conciliante degli Stati Uniti potrebbe essere dovuto alla perdita di slancio dell’economia nazionale, con l’esaurirsi dello stimolo fornito dai tagli delle tasse. Per quanto riguarda la Cina, invece, se da un lato i media locali sembrano essere riusciti a far calare le aspettative, dall’altro le autorità potrebbero essere intenzionate a raggiungere un accordo provvisorio, a condizione che si basi sul «rispetto reciproco»: a nostro avviso, ciò implica che entrambe le parti dovranno introdurre meccanismi di attuazione e reciprocità in settori quali la proprietà intellettuale e l’accesso al mercato. Riteniamo che Pechino sia disposta a scorporare i negoziati sulle questioni di sicurezza nazionale dalle trattative commerciali.

Tuttavia, non vi è alcuna certezza che si giunga a un accordo anche di ridotta entità. Washington ha rinviato l’aumento dei dazi previsto per ottobre, ma sembra che Pechino voglia ottenere una riduzione delle imposte doganali in vigore e la revoca degli incrementi delle aliquote previsti per dicembre. Inoltre, anche se venisse trovato un accordo su questi aspetti, ci sarebbero ancora altri ostacoli da affrontare. Il Presidente Trump ha annunciato che le autorità cinesi hanno promesso di acquistare 40-50 miliardi di dollari di prodotti agricoli americani, ma un impegno di questa entità non ci sembra realistico (il livello massimo toccato dalle esportazioni statunitensi verso la Cina è stato di appena 26 miliardi di dollari nel 2012, quando i prezzi erano molto più alti) e il mancato rispetto delle quote agricole pattuite potrebbe innescare una nuova recrudescenza delle tensioni. Le aziende potrebbero continuare a rimandare i piani di spesa in previsione di una nuova escalation commerciale. E l’economia americana deve ancora assorbire l’impatto degli aumenti dei dazi di settembre.

Dati economici

Al di là del rumore geopolitico degli ultimi mesi, nel complesso il mercato ha sviluppato attese negative sulla produzione e gli investimenti e positive sui consumi e l’occupazione. Pertanto, nei prossimi mesi gli investitori cercheranno probabilmente di cogliere eventuali indicazioni di un’inversione di queste tendenze, ovvero una ripartenza dei dati sulla produzione o un deterioramento di quelli sui consumi.

Le ultime rilevazioni sugli investimenti ci sembrano giustificare un cauto ottimismo. Non siamo certi che le aziende comincerebbero a spendere a piene mani anche se Stati Uniti e Cina firmassero un accordo commerciale provvisorio; ma emergono i primi segnali di stabilizzazione degli investimenti, che a nostro avviso sono già rallentati al minimo indispensabile, e ciò significa che il margine di ulteriore flessione è ormai risicato. Nei Paesi dell’OCSE, la crescita della spesa in conto capitale è diminuita da un tasso annuale del 5% a metà 2017 a meno dell’1% nell’1T19, ma è leggermente risalita nel 2T19, l’ultimo trimestre per il quale sono disponibili dati.

In Cina, il rallentamento degli investimenti fissi nel settore immobiliare e manifatturiero è in parte compensato dall’accelerazione degli investimenti in infrastrutture promossi dal governo. Inoltre, a settembre la produzione industriale cinese ha registrato un’inattesa accelerazione salendo al 5,8% a/a dal 4,4% di agosto, il livello più basso degli ultimi 17 anni.

Produzione e investimenti hanno messo a segno un leggero miglioramento, ma le indicazioni su consumi e occupazione sono diventate meno incoraggianti. A settembre le vendite al dettaglio statunitensi hanno inaspettatamente accusato la prima flessione da sette mesi a questa parte. Inoltre, l’indice ISM dei responsabili degli acquisti del settore americano dei servizi è calato al livello più basso dal 2014. Per i prossimi mesi ci aspettiamo anche un aumento delle richieste continuative di sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti. Benché queste dinamiche siano in buona parte riconducibili a fattori stagionali, difficilmente il mercato riuscirà a ignorarle del tutto.

Utili societari

Con la stagione delle trimestrali del 3T19 in corso, è probabile che gli investitori si chiedano se le attuali previsioni di consenso per la crescita degli utili globali, pari a circa il 10% nel 2020, siano realistiche.

A nostro avviso, i profitti delle aziende americane non deluderanno le aspettative. La nostra attesa per l’anno prossimo è di un’espansione degli utili per azione (EPS) di appena il 5% negli Stati Uniti, rispetto al consenso del 10%, ma questo divario è in linea con la norma, data la tendenza a rivedere al ribasso le stime bottom-up nel corso di un anno. In Giappone ci aspettiamo una crescita dell’EPS dell’1%, rispetto alle previsioni di mercato del 6%, ma anche questo scostamento è relativamente ridotto. Inoltre, negli ultimi mesi il mercato azionario nipponico ha sottoperformato rispetto ad altri listini, con un rendimento totale del 12% da inizio anno rispetto al 18% delle azioni globali.

Giudichiamo invece troppo ottimistiche le attese degli analisti circa i risultati finanziari delle società dei mercati emergenti e dell’eurozona. Il divario più ampio tra le nostre stime e quelle di consenso riguarda la zona euro, dove ci aspettiamo un’ulteriore contrazione dell’EPS del 3% nel 2020, rispetto alla previsione media di una crescita del 10,5%. Nei mercati emergenti, la nostra stima per il prossimo anno è di un’espansione dell’EPS del 6,5%, a fronte dell’attesa di consenso del 14,1%. Nonostante le maggiori possibilità di revisioni al ribasso delle stime di utile, lo Stoxx Europe 600 e l’indice MSCI EM sono saliti rispettivamente del 7,6% e del 7,9% rispetto ai minimi di agosto, grazie all’ottimismo circa una risoluzione della disputa commerciale tra Stati Uniti e Cina. Nello stesso periodo, l’S&P 500 ha guadagnato solo il 5,5%.

Tra i mercati azionari emergenti preferiamo quello cinese. La Cina è ovviamente esposta allo scontro commerciale con gli Stati Uniti, ma i ricavi generati in Nord America dalle società quotate cinesi rappresentano solo il 2% del totale e le autorità stanno stimolando l’economia per controbilanciare l’impatto della disputa commerciale.

Espansione fiscale e monetaria

Guardando oltre le vicende legate al commercio globale, è opportuno valutare anche le prospettive degli interventi di stimolo. A nostro avviso, le politiche fiscali e monetarie favoriscono un’ulteriore moderata espansione.

Ci aspettiamo che gli interventi delle banche centrali continuino a contenere il rischio di una recessione dell’economia statunitense o mondiale e a ridurre le probabilità di un tracollo degli strumenti rischiosi. Se l’incertezza politica diminuisse, gli effetti del calo dei tassi d’interesse si farebbero sentire maggiormente. Inoltre, l’aspettativa di tassi bassi per un periodo prolungato dovrebbe mantenere sotto pressione anche i rendimenti obbligazionari, accrescendo l’attrattiva relativa delle azioni rispetto al reddito fisso. I premi al rischio azionario, pari al 6%, sono superiori alla media di lungo periodo di meno del 4%.

È anche possibile che la politica fiscale assuma un ruolo più importante nel sostenere la crescita economica. Stando alle ultime notizie, la CDU potrebbe essere disposta a rinunciare al suo impegno a favore di una politica di bilancio in pareggio in caso di contrazione dell’economia tedesca. Il Regno Unito dovrà probabilmente aumentare la spesa pubblica dopo la Brexit, a prescindere da chi vincerà le eventuali elezioni politiche. È inoltre improbabile che le presidenziali americane si tengano in un contesto di austerità di bilancio.

Tuttavia, continuiamo a dubitare che le autorità possano effettuare interventi preventivi in grado di favorire un rafforzamento significativo dell’economia o degli strumenti rischiosi. Sul piano fiscale, l’eurozona deve sottostare ai vincoli delle regole di bilancio, il Congresso degli Stati Uniti bloccherà un’ulteriore espansione fiscale per almeno un altro anno e la Cina rimarrà concentrata sui rischi legati a un incremento del debito. Al contempo, la politica monetaria continua a perdere efficacia e, se diminuisse l’incertezza legata alle dispute commerciali e alla Brexit, le banche centrali potrebbero ritenere meno necessario tagliare i tassi d’interesse a scopo cautelare, innescando così un aumento dei tassi di sconto sugli strumenti rischiosi.

Asset allocation

Gli sviluppi relativi al braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina saranno cruciali a breve termine. Se le due superpotenze raggiungeranno un accordo provvisorio, verrà meno una possibile fonte di rischio di ribasso. In uno scenario in cui l’indice ISM del settore manifatturiero statunitense risalisse a 55 punti, secondo le nostre stime l’S&P 500 potrebbe toccare quota 3170 (+5%), grazie al contributo delle revisioni al rialzo degli utili (+4%) e dell’espansione dei multipli (+1%).

Tuttavia, un’intesa preliminare potrebbe non bastare a placare i timori degli investitori circa le prospettive dell’economia, degli utili e degli interventi delle autorità. È inoltre improbabile che i mercati escludano del tutto il rischio di una nuova escalation della disputa commerciale, dopo un anno intero sulle montagne russe. Nel complesso, l’impatto delle tensioni commerciali sui dati economici è uno dei motivi per cui continuiamo a concentrarci sulla generazione di rendimenti azionari, più che puntare su un rialzo delle quotazioni.

Questo mese ci soffermiamo su tre idee d’investimento principali: un sovrappeso sulle azioni statunitensi rispetto a quelle dell’eurozona, una posizione di valore relativo nei mercati emergenti con una preferenza per le obbligazioni rispetto alle azioni e un’esposizione rialzista alla sterlina britannica.

  • Sovrappesiamo le azioni statunitensi rispetto a quelle dell’eurozona. Date le continue preoccupazioni legate al rallentamento dell’economia mondiale e alle tensioni commerciali, riteniamo che la Federal Reserve statunitense (Fed) disponga di un margine di manovra maggiore rispetto alla Banca centrale europea (BCE), che ha già annunciato il ritorno del quantitative easing (QE). A nostro avviso, inoltre, le aspettative di consenso sulla crescita degli utili appaiono più realistiche negli Stati Uniti che nell’area dell’euro. Manteniamo un’opzione put sull’S&P 500 con scadenza a dicembre e strike di 2700, per proteggerci contro un eventuale rallentamento economico più accentuato.
  • Sui mercati emergenti, preferiamo le obbligazioni alle azioni. Le azioni locali sono sensibili al ciclo economico globale e altamente esposte a un eventuale inasprimento degli attriti commerciali. L’inflazione nei Paesi emergenti è in rallentamento, le banche centrali stanno allentando le politiche monetarie e, malgrado la decelerazione della crescita, non si rilevano segnali di un atterraggio brusco dell’economia a breve termine. Questo contesto è favorevole alle obbligazioni, per cui preferiamo esporci ai mercati emergenti attraverso l’indice EMBIGD, che presenta un interessante spread di 330 punti base (pb) rispetto ai Treasury ed è più bilanciato a livello geografico (con un peso inferiore al 20% per l’Asia e di appena il 4% per la Cina).
  • Rimaniamo esposti alla sterlina britannica. Confermiamo il nostro orientamento rialzista nei confronti della GBP, ma modifichiamo le modalità dell’esposizione. Da quando abbiamo avviato la nostra preferenza tattica per la sterlina il cambio GBPUSD è salito del 3%, ma la valuta britannica rimane sottovalutata e, a nostro giudizio, a lungo termine dovrebbe apportare rendimenti totali positivi. Chiudiamo quindi il sovrappeso tattico rispetto all’USD, ma assumiamo un impegno a più lungo termine nei confronti della GBP, eliminando la copertura valutaria della nostra esposizione strategica alle azioni del Regno Unito.
  • • Chiudiamo il sottopeso sull’azionario britannico. Le società del FTSE 100 generano all’estero circa il 70% del fatturato. Poiché nelle ultime settimane i mercati dei cambi hanno in gran parte escluso la possibilità di una Brexit senza accordo, è improbabile che la sterlina subisca forti pressioni ribassiste nel prossimo futuro, mentre la volatilità dovrebbe diminuire rispetto agli attuali livelli. In questo momento la chiusura della posizione corta appare vantaggiosa anche alla luce delle valutazioni relative rispetto alle azioni globali: le azioni del Regno Unito quotano infatti ai minimi ventennali in base ai rapporti prezzo/utili prospettici a 12 mesi e, inoltre, offrono un rendimento da dividendi del 5,1%, il più alto tra i mercati principali.
    • Chiudiamo il sovrappeso sulla corona norvegese rispetto all’euro e al dollaro canadese. Sebbene l’inflazione e la crescita della Norvegia siano state relativamente stabili da quando abbiamo aperto la posizione e la Norges Bank abbia alzato i tassi quattro volte nei 14 mesi intercorsi, i rischi ai quali era esposta la posizione si sono effettivamente materializzati. La ridotta liquidità legata ai timori per la crescita mondiale ha pesato sulla corona norvegese, perfino rispetto all’euro, che si è complessivamente indebolito a causa della politica accomodante della BCE. La NOK si è deprezzata anche nei confronti del dollaro canadese, che è rimasto stabile in quanto la Bank of Canada è stata più riluttante a seguire la Fed sulla strada dell’allentamento monetario.

Deteniamo anche le seguenti posizioni.

  • Sovrappesiamo le azioni giapponesi rispetto a quelle dell’eurozona. I dati economici globali pubblicati di recente hanno mostrato un peggioramento e, a nostro avviso, il mercato azionario nipponico sconta già il rallentamento congiunturale. Infatti, le azioni giapponesi guadagnano il 12% da inizio anno, contro il 21% di quelle dell’eurozona. Su base relativa, i listini dell’eurozona risultano costosi anche rispetto alla loro media decennale, con un premio di oltre due deviazioni standard in base al rapporto prezzo/utili prospettici a 12 mesi. Inoltre, date le prospettive di apprezzamento dello yen a lungo termine, non copriamo più la nostra esposizione strategica alle azioni del Giappone su base valutaria.
  • Sovrappesiamo le obbligazioni corporate investment grade in euro rispetto alle obbligazioni e ai titoli di Stato con rating elevato. I rendimenti si attestano a livelli modesti, intorno allo 0,5%, ma il premio di rendimento rispetto alle obbligazioni e ai titoli di Stato con alto rating è ancora vicino alla media storica. Inoltre, la BCE ha annunciato un nuovo piano di QE a partire da novembre. Gli acquisti mensili di obbligazioni, per i quali non è stata fissata una scadenza, dovrebbero includere titoli corporate per 3-5 miliardi di euro. A fronte di un volume medio di emissioni mensili pari a 15 miliardi di euro da inizio anno, calcoliamo che la banca centrale vada ad assorbire circa il 20-30% dell’offerta netta. Si tratta di un forte impulso per il segmento investment grade, che dovrebbe tradursi in una contrazione degli spread a breve termine.
  • Sovrappesiamo due valute ad alto rendimento dei mercati emergenti (IDR, INR) rispetto a due valute a più basso rendimento (AUD, TWD). La rupia indonesiana e la rupia indiana presentano un vantaggio in termini di tassi di circa il 5-5,5% e il 4,5-5% rispetto al dollaro statunitense. In un contesto di debolezza della crescita mondiale, le economie orientate alla domanda interna, come l’Indonesia e l’India, risultano più isolate dal deterioramento della domanda estera e forniscono quindi una certa protezione contro un’escalation delle tensioni commerciali.
  • Sottopesiamo il dollaro australiano contro il dollaro statunitense. Alla luce dell’elevata esposizione dell’economia australiana a quella cinese, l’AUD è spesso visto come proxy della crescita della Cina, che attraversa una fase di decelerazione. Inoltre, la disoccupazione australiana ha registrato un leggero calo nell’ultimo mese, ma il mercato del lavoro rimane debole. Entrambi questi fattori potrebbero indurre la Reserve Bank of Australia ad assumere un orientamento ancora più espansivo, gettando le basi per un ulteriore allentamento monetario.