I Circuit breaker del Covid-19

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Alcuni politici hanno definito la pandemia di Covid-19 come una guerra contro un nemico invisibile. I mercati finanziari hanno reagito alla diffusione del virus con sell-off e forte riduzione della liquidità, una reazione molto simile a quelle a cui abbiamo assistito prima dello scoppio delle due guerre mondiali del ventesimo secolo.

Gli investitori si sono interrogati a lungo su quale evento avrebbe rappresentato la fine del ciclo economico che lo scorso anno ha rappresentato per l’economia statunitense il record di lunghezza, a causa del suo allungamento e ampliamento. Il modello tradizionale di inflazione crescente che costringeva la politica monetaria a diventare restrittiva sembrava sempre meno plausibile e, quindi, l’alternativa più probabile era rappresentata da uno shock esterno. Tuttavia, a inizio anno, gli investitori non avevano alcuna idea di quale potesse essere questo shock e hanno cercato di individuare eventuali minacce geopolitiche. Ora, invece, siamo in grado di rispondere a questa domanda.

Gli stop quasi completi delle attività produttive per diversi mesi avranno inevitabilmente un profondo impatto sulla crescita a breve termine. Per la prima metà dell’anno ci sono alte probabilità che si verifichi una forte contrazione economica, forse senza precedenti.

Ciononostante, ci aspettiamo che, man mano che le misure per tutelare la salute pubblica (cfr. grafico 1) adottate in Europa e in Nord America cominceranno a dare i primi risultati, governi e banche centrali adottino misure fiscali e monetarie. Per questo motivo, al di là di un’inevitabile calo degli utili aziendali nel primo semestre dell’anno, stimiamo che il secondo semestre del 2020 sarà interessato da una ripresa economica che permetterà alle imprese di ritornare in territorio positivo prima della fine dell’anno.

La strada da seguire

I rendimenti del 2019 di molte asset class hanno battuto le attese, soprattutto grazie all’inversione di rotta delle banche centrali e ai primi segnali di ottimismo in merito alla tregua in ambito commerciale tra USA e Cina, fattore che bloccato l’escalation di nuovi dazi. All’inizio di quest’anno, invece, ci siamo trovati in un contesto caratterizzato da una crescita bassa ma stabile, unita a bassi tassi d’interesse. Nonostante ciò, la spesa per i consumi si era dimostrata resistente.

In quel momento, abbiamo privilegiato le strategie carry per i portafogli multi-asset, come il debito dei mercati emergenti in valuta forte, il settore immobiliare, quello delle infrastrutture e il credito high yield, mantenendo al contempo una posizione leggermente sottopesata all’azionario e, con rendimenti negativi sulle obbligazioni sovrane, abbiamo messo in atto una serie di coperture alternative di portafoglio, come l’oro e le opzioni put. A metà gennaio abbiamo iniziato ad aggiungere ai nostri portafogli esposizioni ai Treasury statunitensi, che offrivano contemporaneamente rendimenti e hedging.

Visto che Asia prima e Europa e Stati Uniti poi hanno optato per misure di quarantena, gli sforzi di contenimento stanno rallentando, con un conseguente blocco delle attività produttive. In base alla diffusione che l’epidemia ha avuto in Cina e in Corea del Sud, i mercati stimano che il picco di contagi ci sarà tra alcune settimane, se non addirittura mesi.

Posizioni di hedging

Visto che la virulenza e la diffusione del coronavirus appariva più chiara, il 16 marzo abbiamo deciso di investire nello yen giapponese come copertura in portafoglio. Ci aspettiamo che tragga beneficio dal calo dei rendimenti obbligazionari statunitensi, essendo lo yen la valuta più sensibile a tali riduzioni di performance. Questa posizione ci offre inoltre una copertura nel caso in cui la pandemia peggiorasse ulteriormente.

Dopo aver riequilibrato le nostre posizioni in scia al calo dei mercati, siamo rimasti leggermente sottopesati nell’azionario, in modo che i portafogli possano beneficiare dell’eventuale ripresa. Abbiamo modificato l’esposizione azionaria nei portafogli prima il 28 febbraio e poi di nuovo il 13 marzo, quando le azioni europee hanno perso oltre il 30% (cfr. grafico 2).

Questa situazione avrà un forte impatto sugli utili aziendali nel breve termine. Tuttavia un mix di bassi tassi d’interesse e calo dei prezzi del petrolio fa sì che, nel lungo periodo, questo si trasformi in opportunità di guadagno piuttosto che in possibilità che mergano rischi di downside.

Le prospettive di ripresa

Con i governi e le banche centrali che stanno compiendo passi decisivi in ambito sanitario, fiscale e monetario, ci aspettiamo che la crisi presenti uno shock significativo ma transitorio. Ma, prima di tutto, dobbiamo vedere che le misure per tutelare la salute pubblica comincino a dimostrare la loro efficacia nelle prossime settimane.

Proprio come l’impatto di una catastrofe naturale, una volta che il numero di contagi da coronavirus avrà superato il picco, ci aspettiamo una graduale ripresa dei mercati azionari. Sulla base degli evidenti successi ottenuti in Cina e in Corea del Sud nel contenere l’epidemia, questo scenario di ripresa rimane il nostro scenario principale.

Ovviamente abbiamo rivisto i nostri target in termini di utili del secondo trimestre per tenere conto dell’impatto che la crisi inevitabilmente avrà. Tuttavia

Il nostro target aggiornato a 12 mesi per l’S&P 500 e stimato a 2.900 punti presenterebbe un guadagno del 20%. Da un alto, anche il prezzo dell’oro dovrebbe tornare al suo fair value e, con i tassi Fed fund ormai prossimi allo zero e un massiccio quantitative easing da parte della maggior parte delle banche centrali, dovrebbe raggiungere nel medio termine i 1.600 dollari l’oncia. Dall’altro, vediamo un lieve rialzo per il debito emergente in valuta locale in un contesto caratterizzato da bassi prezzi del petrolio e, per questo, abbiamo venduto la nostra esposizione all’asset class.

In questo scenario, i premi per il rischio si normalizzerebbero rapidamente anche negli spread creditizi, in quanto i default rimarranno limitati. L’unica eccezione potrebbe essere rappresentata dagli asset esposti al mercato petrolifero, che, nella migliore delle ipotesi, dovrebbe stabilizzarsi vista la guerra dei prezzi tra Russia e Arabia Saudita.

Da un punto di vista macroeconomico, un impatto così grave ma di breve durata permetterebbe ai consumatori di tornare alle loro vecchie abitudini di spesa nella seconda metà di quest’anno, con le misure monetarie e fiscali già in atto che darebbero un impulso all’economia globale.

“Disastro naturale” o “Guerra”?

Non possiamo escludere uno scenario molto più negativo che potrebbe diventare realtà nel caso in cui l’epidemia si rivelasse più lunga, con un impatto sulle economie dalla durata di molti mesi. Potremmo trovarci di fronte a uno scenario del genere se le misure di quarantena in Europa e Nord America si rivelassero meno efficaci rispetto a quelle di Cina e Corea del Sud, oppure se il virus tornasse in Asia in una seconda ondata. In questo caso, il coronavirus potrebbe sembrare meno simile a un disastro naturale a avere più caratteristiche simili a una guerra.

In tali circostanze, le economie assisterebbero a maggiori insolvenze da parte delle aziende, in quanto nessun governo è in grado risanare le perdite subite dalle imprese per molti mesi. Ne seguirebbe inevitabilmente un forte aumento della disoccupazione, che andrebbe a minare la capacità di ripresa delle economie.

C’è il rischio che si ripeta una crisi del debito a livello globale. Dopo la Grande Crisi Finanziaria di quasi dodici anni fa, la ripresa economica è stata in gran parte alimentata dal debito pubblico e dalle imprese ma se il debito fosse il vero problema, allora i mercati non sarebbero rassicurati. Ecco perché abbiamo bisogno di una risposta fiscale. Tassi zero o negativi rappresentano la condizione ottimale per spingere i governi a assumere prestiti.

Dal punto di vista degli investimenti, una recessione prolungata implica un ulteriore 15%-20% di calo per l’azionario, in linea con quanto avvenuto durante la Grande Crisi Finanziaria, così come ulteriori perdite nel reddito fisso high-beta. Una pandemia prolungata incrementerebbe le pressioni per le valute emergenti, mentre il debito emergente in valuta locale potrebbe diminuire di un altro 10%, in linea i cali riportatinel 2008 e nel 2014-2016. In questo modo l’oro attirerebbe i flussi dei beni rifugio, raggiungendo così i 1.800-1.900 dollari l’oncia.

Mercati sconnessi?

In reazione alla volatilità di mercato delle ultime settimane, si è discusso sempre più spesso se abbia senso chiudere i mercati finanziari per fermare il sell-off trainato dal panico.

Dal punto di vista politico, l’amministrazione Trump sarebbe certamente restia a compiere un passo così radicale, specialmente l’anno delle elezioni. Il 17 marzo il Segretario del Tesoro statunitense Steve Mnuchin ha affermato che il governo statunitense voleva mantenere i mercati aperti, con una possibile riduzione della durata degli scambi. Il giorno seguente, la Borsa di New York ha annunciato che chiuderà temporaneamente il trading floor fisico a partire dal 23 marzo, continuando solo con quello elettronico dopo che due trader sono risultati positivi al virus.

Nelle ultime settimane le borse dagli Stati Uniti al Giappone e all’India, alla Corea del Sud e alla Tailandia hanno attivato dei circuit breaker, che forniscono un stop temporaneo degli scambi o dei limiti sulle negoziazioni di titoli quando gli indici scendono al di sotto di una determinata soglia. Ogni mercato finanziario presenta soglie proprie. Dal 9 marzo, il meccanismo ha permesso di bloccare gli scambi per quattro volte negli Stati Uniti.

Raramente si decide di chiudere i mercati ma, recentemente, i mercati cinesi hanno adottato questa soluzione per gestire le conseguenze dall’epidemia di coronavirus. In questo caso, è stato utile il fatto che i mercati siano stati riaperti dopo le festività del nuovo anno lunare. La decisione di chiudere la Borsa greca quasi cinque anni fa durante la crisi del debito pubblico non ha impedito che, cinque settimane dopo, il mercato riaprisse con un calo del 16%. Nella Borsa di New York, i circuit breaker sono stati attivati per la prima volta 17 ottobre 1997, e il mercato ha chiuso tra l’11 e il 17 settembre 2001 a seguito degli attacchi terroristici e ancora una volta il 1° dicembre 2008, con la diffusione della crisi dei sub-prime. A ottobre 2012 la Borsa di New York ha chiuso di nuovo per via dell’uragano Sandy, mentre l’8 luglio 2015 il mercato ha subito un guasto tecnico, che ha portato a una chiusura del mercato di alcune ore.

Dobbiamo tornare indietro di oltre un secolo, allo scoppio della prima guerra mondiale, per trovare un esempio di chiusura prolungata. La Borsa di New York chiuse il 31 luglio 1914 per riaprire quattro mesi dopo, con le altre Borse mondiali che fecero lo stesso

Per ora, stiamo monitorando attentamente l’evoluzione dei contagi, soprattutto in Europa e in Italia, e le misure a tutela della salute pubblica che si stanno diffondendo negli Stati Uniti. L’efficacia delle misure prese per tutelare la salute pubblica definiranno la situazione che l’economia globale si troverà ad affrontare, ovvero che si tratti di un forte shock della durata di alcune settimane e di un rallentamento di diversi mesi. Gran parte del quadro fiscale e monetario per la ripresa è già in atto.