COP26: Un clima di cambiamento?

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Nell’ordine del giorno della Conferenza sul cambiamento climatico dell’ONU (COP26), che si terrà a Glasgow, dovranno necessariamente figurare degli interventi urgenti per mitigare i mutamenti climatici.

La COP26 è prevista per novembre e in vista dell’evento i governi e le aziende di tutto il mondo hanno fissato ambiziosi target per la lotta al riscaldamento globale. In occasione della Conferenza di Parigi sul clima del 2015 l’impegno formale era bastato a innescare una risposta transnazionale al cambia­mento climatico, in questo caso crediamo che occorrano fatti concreti. Perché la COP26 abbia successo occorreranno azioni più mirate e la presa di coscienza che è necessario agire immediatamente non solo da parte dei governi, ma anche di aziende e investitori, così da innescare un’inversione di rotta tangibile nel processo di decarbonizzazione dell’eco­nomia nel complesso.

La cruda realtà è che lo scetticismo circa la traiettoria della riduzione delle emissioni è giustificato. Le conclusioni dell’ulti­mo report dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sono corroborate dalle recenti ricerche di Chatham House secondo cui, a meno di un netto cambio di rotta, sarà impossibile raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. L’ONU ha scoperto che persino nel 2020, caratterizzato da lockdown e riduzione di attività industriale e viaggi, la massi­ma diminuzione delle emissioni nei 12 mesi dell’anno è stata di appena il 7% e pertanto avrà un impatto irrilevante sul cam­biamento climatico.

In qualità di investitori temiamo che i risultati raggiunti alla COP26 non saranno sufficienti a consentire un allineamento con il target di limitazione del rialzo delle temperature a 1,5° C a livello globale. Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha definito l’ultimo rapporto dell’IPCC pubblicato ad agosto “un allarme rosso per l’umanità” e un avvertimento circa l’impossibilità di contenere il riscaldamento sotto la soglia di 1,5° C in mancanza di un significativo cambio di marcia.

A nostro avviso, è importante che la COP26 sia vista come un’opportunità per accelerare l’attività e che i governi, le aziende e gli investitori attuino interventi specifici volti a ridare slancio all’azione sul fronte climatico.

Ci auguriamo che la COP26 crei un clima adatto a innescare un cambiamento reale e a spingere tutte le parti coinvolte ad assumersi delle responsabilità e ad agire. Nelle pagine che seguono illustriamo ciò che i suddetti stakeholder dovrebbero fare secondo noi per garantire il successo della conferenza.

I governi devono dare prova di leadership collettiva e individuale

Il successo o il fallimento delle precedenti Conferenze delle parti (COP) è dipeso dalla leadership delle principali nazioni sul fronte climatico e dalle pressioni degli stakeholder nel complesso che hanno indotto i partecipanti di accantonare le opinioni tradizionali sul clima. In questo caso, un problema è rappresenta­to dalla mancanza di una leadership chiara in termini di best practice e nella presenza di un gap evidente nelle iniziative transnazionali.

Per riuscire a colmare il gap sul fronte delle emissioni, la COP26 dovrà prima di tutto indurre i governi ad avviare azioni decise in tre aree strategiche.

  1. Adozione di target più ambiziosi da parte dei fanalini di coda sul fronte climatico

I G20 sono responsabili del 78% delle emissioni globali e hanno le risorse per contrastare in modo efficace il cambiamento climatico. L’inattività su tale fronte non dovrebbe essere tollerata e gli eterni indecisi come l’Australia dovrebbero smettere di nicchiare e intro­durre target di azzeramento delle emissioni nette su scala nazionale cui facciano seguito effettivi interventi delle autorità politiche.

Inoltre, Paesi come India e Cina – dove gli obiettivi finali sono stati fissati ma i target intermedi mancano o sono molto generici – devo­no elaborare strategie d’azione molto più chiare nell’immediato senza procrastinare oltre. In Cina, ad esempio, l’utilizzo di carbone è tuttora in aumento, pertanto è necessario un cambio di rotta quanto prima.

I timori sono particolarmente forti per i Paesi citati ma in generale è preoccupante che tra tutte le nazioni con target di azzeramento delle emissioni nette solo una, il Gambia, si sia esplicitamente impegnata a contenere il rialzo delle temperature a massimo 1,5 gradi.

  1. Erogazione di finanziamenti in linea con le esigenze

L’impegno dei Paesi avanzati a destinare USD 100mld l’anno al finanziamento della transizione climatica alla COP16 avrebbe dovuto essere il fondamento della svolta green. Tuttavia, sinora gli impegni finanziari assunti non sono stati onorati. Infatti, l’importo di USD 100mld annui non è stato mai raggiunto7. Per di più, solo una frazione del capitale è composta da finanziamenti a fondo perduto mentre una quota eccessiva è erogata a condizioni sfavorevoli o sotto forma di prestiti che spesso presentano tassi di interesse superiori a quelli di mercato8. Di conseguenza, i Paesi in via di sviluppo non sono incentivati a investire nel clima.

Tale situazione deve essere risolta in occasione della COP26.

  1. Adeguamento del sistema di attribuzione di un prezzo al carbonio e sospensione dei sussidi per i combustibili fossili

Il carbon pricing è essenziale per incentivare l’abbandono dei combustibili fossili e dei processi ad alta intensità di carbonio. In base a tale meccanismo la responsabilità di pagare per i danni dovuti al cambiamento climatico non ricade più sullo Stato ma sui responsabili delle emissioni.10

Riteniamo che l’intesa su una soglia minima per il costo del carbonio a livello mondiale sarebbe un primo passo importante, pur in assenza di una carbon tax o di sistemi per lo scambio delle emissioni su scala glo­bale. Altrimenti i vari Paesi sarebbero disincentivati a fare da apripista per l’attribuzione di un prezzo al carbonio. A titolo esemplificativo, occorrerà integrare gli schemi esistenti, come quello per lo scambio delle emissioni nell’UE, con meccanismi di adeguamento alle frontiere complessi, che potrebbero dare luogo a contestazioni, così da evitare che le aziende locali attive sul fronte climatico vengano penalizzate.

Al carbon pricing dovrebbe accompagnarsi la rimozione dei sussidi per i combustibili fossili che, secondo l’FMI, ammontavano a USD 5.900 mld nel 2020. Di tale somma, appena l’8% corrisponde ai costi di fornitura mentre il restante 92% deriva dalla mancata imposizione di tasse sui consumi o dall’addebito di costi inferiori al dovuto per i danni ambientali11.

Nel bel mezzo di un’emergenza climatica si tratta senza dubbio di un errore di allocazione delle risorse, che potrebbero essere impie­gate per accrescere l’accesso all’energia dei più vulnerabili con modalità molto più sostenibili.