Deglobalizzazione in pratica

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Nonostante le valutazioni molto basse, anche quest’anno il mercato azionario cinese sta sottoperformando le borse globali di oltre 10 punti percentuali. Ciò è dovuto ai dati economici che si sono rivelati al di sotto delle attese e alla situazione geopolitica.

Si riscontrano infatti segnali contrastanti sul rapporto tra Stati Uniti e Cina, che da molti punti di vista sembra essere ai minimi storici. Alcuni passi avanti sul piano diplomatico sono stati seguiti da restrizioni al commercio e da dichiarazioni poco concilianti.

Da inizio anno il Messico ha sostituito la Cina quale principale partner commerciale degli Stati Uniti. Il valore delle importazioni statunitensi di merci cinesi è sceso di oltre il 20% da inizio dell’anno. Ciò in parte è dovuto all’attuale fase nella quale i consumatori sembrano privilegiare i servizi ai prodotti, mentre alcuni flussi commerciali potrebbero essere intermediati da Paesi come il Messico, l’India o il Vietnam; ma resta comunque una forte diminuzione.

L’ultima notizia della scorsa settimana è che il Dipartimento del Tesoro statunitense ha proposto un meccanismo per selezionare gli investimenti all’estero del settore privato nelle tecnologie avanzate in campo militare e nella cybersecurity in Paesi definiti «of concern», cioè preoccupanti. Tra questi sono stati inclusi la Cina e le sue regioni a statuto speciale, Hong Kong e Macao.

Non si tratta di un blocco tout court ma in sostanza di un diritto di veto nei confronti di alcuni investimenti esteri. Il risultato con tutta probabilità sarà di limitare ulteriormente i flussi di capitali verso la Cina per rallentare lo sviluppo di tecnologie avanzate che potrebbero rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti. L’aspettativa è che questa iniziativa possa porre limitazioni in aree quali i semiconduttori, il quantum computing e l’intelligenza artificiale. Le biotecnologie sono state escluse per ora.

Per quanto riguarda gli investimenti stranieri negli Stati Uniti, il governo federale ha già l’autorità per fermarli qualora consideri che ci sia qualche rischio per i propri interessi nazionali, in particolare se tra gli investitori sono inclusi, anche indirettamente, governi stranieri.

Le tensioni tra Stati Uniti e Cina rimangono elevate e non ci aspettiamo miglioramenti a breve. Maggiori restrizioni agli scambi di tecnologia e capitali tra le due nazioni rappresentano un freno per la crescita globale perché comportano una minor efficienza nell’allocazione del capitale. Ciò potrebbe portare, ad esempio, a maggior inflazione.

Le aziende americane probabilmente dirigeranno altrove il proprio capitale, verso Paesi limitrofi o parte dello stesso blocco geopolitico. In effetti, si tratta di una tendenza in corso da oltre un decennio ma che ha subito un’accelerazione di recente, anche per via della guerra in Ucraina.

Nonostante confronti diretti tra superpotenze rimangano improbabili, non si possono escludere nuove escalation. Il timore degli investitori è che le difficili relazioni con gli Stati Uniti possano portare a limitazioni agli investimenti sul mercato azionario cinese, che innescherebbero un’ondata di vendite.

Si tratta di un evento poco probabile, ma date le potenziali conseguenze non lo si può ignorare e in qualche misura gli investitori si sono già posizionati. Secondo Standard & Poor’s, il valore complessivo degli investimenti in Cina è diminuito del 76% nel corso del 2022.

Nell’ambito di un portafoglio globale abbiamo una preferenza per l’indice allargato dei mercati emergenti (MSCI Emerging Markets Index), di cui la Cina rappresenta circa il 30%.