J. SAFRA SARASIN: dove nascondersi quando le tensioni in Medio Oriente si fanno sentire

Wolf von Rotberg, Equity Strategist di J. Safra Sarasin -

L’attacco di Hamas ai villaggi israeliani di poche settimane fa non ha creato soltanto un dolore intollerabile tra i civili e le famiglie israeliane, ma ha anche aperto la strada a un’escalation di violenza in Medio Oriente. Le conseguenze geopolitiche di queste azioni sono difficili da immaginare, ma l’ampia varietà di attori e interessi nella regione offre numerosi scenari di rischio e potrebbe riportare alla memoria le guerre mediorientali degli anni Settanta.

Tuttavia, ciò non è scontato, poiché gli sforzi diplomatici si stanno moltiplicando per limitare il conflitto a Gaza ed evitare che si estenda ad altre parti della regione.

Data l’incertezza sui potenziali sviluppi futuri, è consigliabile guardare ai conflitti passati per trovare indicazioni su come difendersi da un’ulteriore escalation della situazione.

L’asset tipicamente più colpito dalle crescenti tensioni in Medio Oriente è il petrolio, con la regione che continua a produrre più di un terzo delle forniture giornaliere. In particolare, la produzione dell’Iran, ottavo produttore mondiale di greggio, sarebbe a rischio in caso di escalation.

Dopo che le esportazioni iraniane erano scese al di sotto dei 500.000 bbl/d (barili al giorno) nel 2020, la sua produzione è risalita fino a 1,5 milioni di bbl/d stimati a settembre, riflettendo in parte un allentamento dell’applicazione delle sanzioni statunitensi.

Un nuovo inasprimento delle sanzioni potrebbe far scomparire fino a 1 milione di bbl/d dalla produzione globale. Inoltre, un aumento dell’incertezza sulle forniture da parte dell’Arabia Saudita potrebbe facilmente far impennare i prezzi come in risposta all’invasione dell’Ucraina nel 2022. Allora i prezzi del petrolio guadagnarono il 30% nel giro di due settimane prima di assestarsi a circa il 15% al di sopra dei livelli prebellici.

Andando più indietro nella storia, la variazione media del prezzo del petrolio è stata di circa il 35-40% in risposta all’aumento delle tensioni in Medio Oriente. Ma è chiaro che ogni conflitto è diverso e anche il mercato del petrolio è cambiato.

Gli Stati Uniti sono oggi il maggior produttore di greggio, il che rende il mercato più resistente a uno scenario simile a quello dell’embargo petrolifero degli anni ’70, quando i prezzi sono più che triplicati. Inoltre, finché la diffusione degli scontri nella regione di Israele/Palestina è stata contenuta a livello locale, l’impatto sul petrolio è stato abbastanza modesto. In genere, i prezzi aumentano solo del 9% in caso di conflitto circoscritto a livello locale, il che colloca il rialzo dell’8% delle ultime due settimane proprio al punto giusto.

L’unico altro asset che ha registrato un movimento significativo nelle ultime due settimane è l’oro, con un guadagno del 6% dall’inizio degli attacchi. È sorprendente che ciò sia avvenuto a fronte di un aumento di 11 punti percentuali dei rendimenti decennali statunitensi, il che indica che i mercati del reddito fisso non hanno preso realmente atto dell’attacco e per ora non prevedono un impatto significativo sul ciclo globale.

Anche gli altri asset non si sono quasi mossi in risposta all’attacco. I titoli azionari statunitensi sono rimasti fermi e i mercati valutari sostanzialmente invariati.

Ci aspettiamo che queste mosse rimangano limitate e che non abbiano un ulteriore impatto sui prezzi degli asset finché si potrà ipotizzare con sicurezza che il conflitto non si estenda ad altre parti della regione. Gli sforzi diplomatici concreti compiuti negli ultimi giorni, che invitano a un approccio misurato e a non coinvolgere altre parti nel conflitto, possono essere considerati positivi a questo proposito.

Tuttavia, anche se la probabilità di una forte escalation è diminuita negli ultimi giorni, raccomandiamo tre coperture contro un’escalation della situazione, che consideriamo interessanti anche su base individuale:

i) Per quanto riguarda le azioni, il mercato britannico beneficerebbe sia di un aumento dei prezzi del petrolio che di un rafforzamento del dollaro USA. Ciò è dovuto alla sostanziale ponderazione energetica dell’indice e all’elevata esposizione ai ricavi esteri. Il mercato azionario britannico è anche uno degli indici più difensivi a livello globale, che sarebbe ulteriormente sostenuto da tassi più bassi nella parte lunga della curva, in uno scenario di “risk off”.

ii) Per quanto riguarda i tassi, raccomandiamo una quantità significativa di duration di qualità. La curva statunitense dovrebbe appiattirsi se i prezzi del petrolio aumentano. Le pressioni inflazionistiche a breve termine potrebbero scontrarsi con un aumento dei rischi di recessione e con l’ampliamento degli spread creditizi.

iii) In termini di valuta estera, la corona norvegese sembra interessante se i prezzi del petrolio dovessero aumentare. In genere guadagna circa il 4% (ponderato per gli scambi) per ogni variazione del 20% dei prezzi del petrolio Brent, ma di recente ha ceduto circa il 5%. Un aumento significativo dei prezzi del petrolio al di sopra di 100 USD/bbl comporterebbe quindi un guadagno del 5%-10% per la NOK su base ponderata.