October Effect

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L’“Effetto Ottobre” è temuto dagli operatori perché è il mese dei grandi crolli della storia: il panico del 1907, la crisi del 1929, il crollo del 1987, quando il Dow perse oltre il 22% in un solo giorno.

Ma l’Effetto ottobre è solo una suggestione psicologica priva di validazione statistica e quest’anno, ad esempio, è stato anticipato dall’“Effetto Agosto” e dall’“Effetto Settembre”.

In luglio i listini avevano ulteriormente allungato la distanza dalle loro medie mobili di breve e lungo termine, poi è arrivata la frenata di agosto, nel terzo trimestre lo S&P 500 è sotto di quasi il 10% rispetto ai massimi dell’anno.

Fino ad agosto lo S&P 500 era cresciuto grazie al traino dalle “Big Seven” della tecnologia, l’indice ricalcolato attribuendo ai titoli lo stesso peso è rimasto piatto. Il movimento ha poi perso forza e gli utili delle società del settore tecnologico non sono stati “i raggi di sole” come nel primo e nel secondo trimestre.

I risultati trimestrali di alcune delle “Magnifiche Sette” hanno deluso, ma se gli investitori sembrano aver smarrito la loro sicurezza, i consumatori americani non sono stati ancora fiaccati dagli undici consecutivi rialzi dei tassi in diciotto mesi.

Sono loro che stanno sostenendo l’economia americana, la spesa per consumi ha rappresentato più della metà dell’aumento annualizzato nel terzo trimestre grazie alla forza del mercato del lavoro, la crescita del Pil di +4,9% è stata oltre tutte le previsioni ed è il dato più forte dal 2021.

Le sorti dell’indice sono state strettamente connesse alle sorti delle “Big Seven” della tecnologia e lo rimarranno nel ragionevole futuro.

Lo stato di salute del settore tecnologico resta buono, soprattutto nel segmento dell’intelligenza artificiale generativa in cui sono previsti investimenti ingenti.

La singolarità del settore tecnologico è che non è strutturato verticalmente ma riguarda in modo orizzontale, trasversale, tutti i settori. Gli investitori dovrebbero dunque guardare anche agli utenti delle infrastrutture AI, ad esempio i settori della sanità o dei trasporti, la vendita al dettaglio, i servizi finanziari, il settore industriale.

Nonostante le difficoltà innescate dalle interruzioni delle catene di fornitura e dal maggior costo del lavoro, le aziende del settore tecnologico hanno conservato margini di profitto grazie alla riduzione dei costi, alla gestione efficiente delle forniture, all’adeguamento dei prezzi. Il “caso” delle azioni nel lungo termine non è scalfito, le valutazioni tirate trovano una spiegazione nella liquidità e nelle prospettive del settore tecnologico.

Ad ogni buon conto, il nervosismo degli investitori è comprensibile: si trovano alle prese con la scelta tra la fedeltà alla pianificazione di lungo termine e gli aggiustamenti ritenuti necessari per proteggere il capitale.

La forza del dollaro esercita una pressione negativa sui mercati emergenti, sollecitati anche dal movimento dei tassi e dal rallentamento della Cina. Sia i mercati emergenti che la Cina presentano valutazioni interessanti in termini relativi rispetto agli Stati Uniti.

Certo, investire in Cina è rischioso ma non investire lo è di più. Pensiamo alle dimensioni dell’economia cinese che rappresenta il 16% della domanda globale di petrolio, il 17% di gas naturale liquefatto, il 51% di rame, il 55% di acciaio, il 58% di carbone e il 60% di alluminio. Pensiamo al suo ruolo nelle catene della fornitura, a quanto sia rilevante nei flussi di cassa delle società europee e americane. In varie forme, le condizioni di salute dell’economia cinese impattano sull’economia globale e sui portafogli di tutti gli investitori, anche di coloro che dalla Cina si tengono alla larga.

Il governo cinese è fortemente determinato a riportare la crescita nel sentiero del 5% e, dicevamo sopra, l’ipotesi dell’atterraggio morbido negli Stati Uniti è sul tavolo.

I rischi dello scenario sono relativi alla possibilità di un aggravamento delle tensioni geo-politiche e che la Fed mantenga una stance “attivista”. La preoccupazione dei banchieri di Washington è sulla lentezza con cui scende l’inflazione e sul prezzo del petrolio, suscettibile alle decisioni dell’OPEC+ e all’evoluzione dello scenario di guerra.