Mercato del lavoro e welfare aziendale, il fenomeno della Great Resignation

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Il Rapporto Inapp 2023 delinea le tendenze evolutive del mercato del lavoro nel nostro Paese. Tra i diversi profili rappresentati ce ne sono alcuni che assumono particolare evidenza. Tra il 1991 e il 2022 – si legge nel Rapporto Inapp – i salari reali sono rimasti pressoché invariati, con una crescita dell’1%, a
differenza dei Paesi dell’area Ocse dove sono cresciuti in media del 32,5%. In particolare, nel solo 2020 (terzo nell’anno della pandemia da Covid-19) si è registrato un calo dei salari in termini reali del -4,8%. In
quest’anno si è registrata anche la differenza più ampia con la crescita dell’area Ocse con un -33,6%.
Accanto a questo problema si è sviluppato anche quello della scarsa produttività: a partire dalla seconda
metà degli anni Novanta la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%.

Altro aspetto rilevante è l’invecchiamento della forza lavoro. Mentre nel 2002 ogni 1.000 persone che
avevano un’età compresa tra 19 e 39 anni ce n’erano poco più di 900 aventi 40-64 anni, nel 2023
quest’ultimo valore ha superato le 1.400 unità. Ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni ci sono
ben 1.900 lavoratori adulti-anziani. Il settore che di gran lunga ha i lavoratori più anziani è quello della
pubblica amministrazione (3,9 lavoratori anziani ogni lavoratore giovane), seguito dal settore finanziario e
assicurativo.

Si delinea poi anche in Italia il fenomeno della Great Resignation. Appare infatti rilevante il numero di
occupati che mostrano l’intenzione di lasciare il proprio lavoro. Si stima che il 14,6% degli occupati tra i 18 e i 74 anni (oltre 3,3 milioni di persone) abbia pensato di dimettersi. Tale quota è composta da un 1,1% che lo farebbe anche se ci fosse una riduzione del tenore di vita e da un 13,5% che farebbe questa scelta solo se trovasse altre entrate economiche. Le quote più alte di chi ha intenzione di dimettersi, a prescindere dalla motivazione, si osservano in corrispondenza degli occupati con un diploma (18,9%), diminuiscono col
crescere dell’anzianità anagrafica e delle dimensioni del comune di residenza. A volersi dimettere sono maggiormente gli occupati dipendenti, operanti nelle organizzazioni di media dimensione (15-49 addetti) e che svolgono la loro attività in imprese private. Nel pubblico l’1,5% dei lavoratori (contro l’1% del privato) lo farebbe anche se questo comportasse una riduzione del tenore di vita. Il desiderio di cambiare occupazione è maggiore per chi svolge lavori più faticosi e poco soddisfacenti.

Rispetto poi alla formazione continua si confermano i bassi livelli di partecipazione degli individui agli
interventi formativi. La popolazione adulta di età compresa tra 25 e 64 anni che ha partecipato ad attività di istruzione e formazione è stata infatti nel 2022 pari al 9,6%. È una quota che denota comunque un
avanzamento consistente rispetto al 2020 (+2,4%), ma che allontana l’Italia dall’Europa: nel confronto con il corrispondente valore medio europeo (11,9%), il nostro Paese perde terreno (-2,3%) rispetto
all’avanzamento registrato l’anno precedente.

Quali sono le possibili considerazioni? Una delle risposte può essere rappresentata dal welfare aziendale.
Introdurre sistemi incentivanti tramite accordi collettivi su base aziendale, entro la cornice comunque dei
contratti nazionali, consente di introdurre obiettivi quali quantitativi da raggiungere con un incremento della produttività del lavoro.

Il welfare aziendale può fornire poi con le opportune coperture sanitarie collettive soluzione agli effetti
dell’invecchiamento del personale sia in termini di prevenzione che di assistenza di fronte ad un incremento della morbilità legata all’aumento dell’età media. Last but not least rappresenta un fattore distintivo aziendale per trattenere “talenti” e “risorse chiave” in un mercato del lavoro sempre più “mobile”.