Le proposte dell’Ania per rilanciare la previdenza complementare

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L’ Ania, intervenendo in una specifica audizione parlamentare in Senato ha sviluppato una serie di utili riflessioni sul come rilanciare la previdenza integrativa. L’attenzione a livello politico è rivolta in prevalenza, al momento, agli aggiustamenti da apportare al sistema pensionistico pubblico, in particolare alla ricerca di una soluzione permanente alla determinazione dei requisiti per accedere alla pensione rispetto alle misure temporanee adottate negli ultimi anni e basate sulle “quote”.

Le compagnie assicurative italiane sono convinte, al riguardo, che le linee guida di un’eventuale riforma della previdenza obbligatoria debbano essere quelle di concedere la massima flessibilità possibile ai lavoratori, a condizione che sia mantenuta l’equivalenza attuariale delle prestazioni: andare un po’ prima in pensione dev’essere reso possibile nella misura in cui ciò sia associato a un’equa misura dell’assegno pensionistico, ridotto a fronte della maggiore durata attesa della sua erogazione.

Una tale flessibilità renderebbe ancora più rilevante, d’altra parte, porre attenzione all’adeguatezza delle prestazioni: le più recenti previsioni formulate dalla Ragioneria Generale dello Stato indicano un tasso di sostituzione lordo della previdenza obbligatoria – nell’ipotesi base e con i requisiti minimi, ma ipotizzando una carriera lavorativa senza interruzioni – destinato a scendere dal 71,7% nel 2020 al 58,4% nel 2050 per i dipendenti del settore privato, e dal 54,9% al 46,7% per i lavoratori autonomi.

Alla luce di questi dati, assumendo come improbabile un’inversione di tendenza finanziata dallo Stato, l’unica alternativa percorribile è la diffusa adesione dei lavoratori alle forme previdenziali e l’accantonamento, per il tramite delle stesse, di volumi di risparmio idonei a ottenere integrazioni di pensione che sostengano dignitosamente le esigenze economiche dei lavoratori una volta in quiescenza.

Invece, lo sviluppo della previdenza complementare è ancora largamente inferiore alle attese e alle necessità: le forme previdenziali integrative in Italia rappresentavano alla fine del 2022 meno del 10% del
PIL, a fronte di una quota maggiore del 100% nel Regno Unito e di più del 200% nei Paesi Bassi. Le risorse destinate alle prestazioni delle forme pensionistiche integrative erano di poco superiori ai 200 miliardi, appena il 4% del risparmio finanziario posseduto dalle famiglie.

Gli iscritti erano 9,2 milioni, ma più di un quarto non hanno versato contributi nel 2022, mentre gli aderenti versanti hanno conferito alle forme previdenziali poco più di 18 miliardi, corrispondenti in media a 2.860 euro pro-capite. La fascia di età che conta meno aderenti è quella dei giovani (risulta iscritto meno di un quinto dei lavoratori con meno di 35 anni), le donne rappresentano solo il 38% circa del totale, i tassi di adesione al Sud e tra i lavoratori autonomi sono decisamente inferiori alla media. Considerando gli iscritti a forme pensionistiche istituite dalle imprese di assicurazione e le risorse gestite dal nostro settore per conto di altre forme o per erogare pensioni complementari, si può attestare che le imprese di assicurazione siano oggi il principale interlocutore al quale i cittadini e le aziende si rivolgono per integrare le prestazioni previdenziali del sistema pubblico.

Certamente l’industria assicurativa è consapevole della necessità di rendere sempre più attrattiva l’offerta dei prodotti e, soprattutto, di intensificare l’attività di collocamento, anche trovando nuove forme di collaborazione con i datori di lavoro per incrementare la partecipazione dei lavoratori delle PMI. A tal fine, occorre innanzitutto aumentare, attraverso campagne di sensibilizzazione o grazie ai soggetti preposti alla raccolta delle adesioni ,la consapevolezza dei cittadini sui vantaggi connessi all’adesione, quali la fiscalità di favore riconosciuta all’investimento previdenziale, le condizioni di flessibilità, la liquidabilità della posizione previdenziale e incentivazione fiscale maggiori di quelle previste per il TFR lasciato in azienda, le performance finanziarie di lungo periodo, in media premianti rispetto agli impieghi di breve termine.

E’ importante poi la pluralità dell’offerta, caratterizzata da costi di norma più contenuti rispetto ai comuni prodotti finanziari o assicurativi e la diversificazione dell’investimento rispetto al sistema previdenziale di base. Andrebbero anche vinte le motivazioni alla base della mancata adesione di coloro che, pur essendo consapevoli della convenienza e dell’opportunità di aderire, non hanno fiducia in un sistema talvolta complesso e articolato, istituendo un “Portale delle Pensioni integrato”, nel quale tutti i lavoratori possano acquisire consapevolezza su quanto maturato nel sistema, accedendo al quadro completo di tutte l componenti previdenziali, pubbliche e private, anche se frammentate tra enti diversi, in modo da stimare i tempi e i livelli della pensione complessiva e decidere così se aderire o quanto versare a una forma previdenziale.

Sono sempre di più i Paesi europei, infatti, che hanno costituito, di comune accordo tra enti di previdenza pubblica e privata, imprese di assicurazione in primis, un portale con le suddette caratteristiche, aperto a tutti. Un simile strumento sarebbe estremamente utile anche in Italia: in un sondaggio promosso dall’Ania qualche anno fa risultò che chi , attraverso la prima somministrazione delle “busta arancione” da parte dell’INPS –, veva una migliore cognizione della pensione futura, si era attivato più dei non informati per iscriversi a forme di previdenza e provvedere per tempo a costituirsi una “pensione di scorta”.

L’opera informativa non dovrebbe trascurare i datori di lavoro, con riferimento alle misure compensative previste dalla legge a fronte della “perdita del TFR” dei lavoratori che aderiscono alla previdenza complementare. In più, sarebbe senz’altro opportuno semplificare le norme fiscali sui fondi pensione e ripensare la tassazione sui rendimenti. L’attuale disciplina fiscale è basata, com’è noto, su un sistema di tipo “ETT” (deducibilità dei versamenti, tassazione dei rendimenti finanziari in fase di accumulo e tassazione delle prestazioni al momento del 13 pensionamento), a differenza di molti altri Paesi che prevedono un sistema “EET” in cui i rendimenti finanziari durante la fase di accumulo sono esenti da tassazione.

Anche in Italia sarebbe utile passare a tale configurazione che, differendo la tassazione, potrebbe ulteriormente stimolare le adesioni. L’eliminazione costituirebbe un incentivo naturale per i giovani ad aderire il prima possibile, dal momento che, in media, la quota relativa ai rendimenti è correlata alla durata della partecipazione.

Tra l’altro, la tassazione differita al momento dell’erogazione della prestazione garantirebbe allo Stato entrate fiscali proprio quando si materializzano le uscite per la pensione pubblica. In subordine, si potrebbe prevedere un vantaggio fiscale esplicito per i giovani fino a 35 anni, eliminando la tassazione sui rendimenti delle loro posizioni previdenziali. Lo stesso limite di deducibilità fiscale dei contributi destinati alla previdenza complementare risale a prima dell’ingresso nell’euro e dovrebbe essere indicizzato o aggiornato, specialmente in caso di aderenti che intendano iscrivere propri familiari o in caso di trasferimento intergenerazionale del risparmio a favore delle pensioni complementari dei figli o dei nipoti.

Altre misure meritevoli di considerazione per rilanciare le iscrizioni e la funzione della previdenza complementare sono quelle di aprire i fondi pensione a qualsiasi categoria professionale, garantendo la piena mobilità delle posizioni individuali, promuovere un nuovo semestre di “silenzio assenso”, concedendo alle PMI che lo richiedessero un credito agevolato per compensare la perdita del TFR come fonte di finanziamento, implementare iniziative mirate sui segmenti di potenziali aderenti meno coperti, migliorare l’attrattività delle rendite integrative favorendo ulteriormente la loro adozione. Si tratta di misure che avrebbero un impatto limitato sui conti pubblici, ma consentirebbero ai lavoratori di aumentare, con consapevolezza, il proprio risparmio previdenziale, riducendo le possibili vulnerabilità in età anziana e rafforzando le potenzialità di finanziamento di lungo termine dell’economia reale.