Alla fine dei giochi la Fed rimane pur sempre il fattore dominante!

Alessandro Tentori -
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Quel 10 Gennaio 2019, quando il vice-governatore della Fed Richard Clarida pronunciò la fatidica frase “this process of learning about u* and r* as new data arrive continues and reinforces that we are not on a preset course”, sembra ormai così lontano.

L’inversione del “wording” della Fed ha avuto un effetto boomerang su tutte le classi di attivo globali, il cosiddetto “Powell put” è stato finalmente attivato.

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In particolare, l’indice S&P500 valeva ben 10.9% in meno e il Treasury decennale scambiava a 30 punti base in più di oggi. In questo articolo vorrei fare il punto sulla situazione macro Statunitense, per poi soffermarmi sulle possibili opzioni di politica monetaria alla luce delle attuali valutazioni degli asset finanziari.

Recessione? Forse no (o non ancora)

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Ormai quasi tutte le discussioni sulla congiuntura Americana sfociano inevitabilmente nella probabilità di recessione. La Fed stessa alimenta questo dibattito, stimando la probabilità di una recessione nei prossimi 12 mesi al 32.7%.

 

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Gli economisti di AXA IM prevedono un rallentamento ciclico dell’economia Statunitense con tassi di crescita che dovrebbero attestarsi intorno al potenziale per il 2019, per poi scendere ulteriormente a 1.6% nel 2020. Non è prevista per il momento una recessione nei prossimi 18-24 mesi. Farei altresì notare che la curva dei tassi Fed funds implica ben 46 punti base di tagli entro Dicembre 2020, in contrasto con le aspettative dei membri dell’FOMC che prevedono un ulteriore rialzo entro la fine dell’anno prossimo.

 

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Il mercato del lavoro e l’inflazione

Come già evidenziato in passato, il mercato del lavoro è uno dei principali indicatori per i membri del FOMC. Nonostante i dati vengano rilasciati con un lag temporale, essi facilitano la lettura e la previsione dei trends dei consumi, di gran lunga la componente più importante nel PIL. E non solo. I salari sono una componente fondamentale per le previsioni del tasso d’inflazione. Vista la resilienza dei prezzi al consumo – in media al 2.2% negli ultimi 24 mesi – nonostante il netto e costante miglioramento dell’occupazione, analisti, investitori e banchieri centrali continuano a chiedersi se il modello macroeconomico standard abbia perso la sua validità. Ricordiamo che l’equazione di Phillips è una delle tre componenti principali del modello: L’inflazione è una funzione dell’output gap e delle aspettative di inflazione. Il grafico evidenzia come la relazione tra occupazione e salari – la curva di Phillips, appunto – abbia cambiato gradiente appena il tasso di disoccupazione Statunitense è sceso sotto il tasso di disoccupazione potenziale (quello che Richard Clarida chiama “u*”). In verità, la curva di Phillips si era temporaneamente assopita e ha ripreso una forma più abituale negli ultimi trimestri.

 

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Uno sguardo ai mercati finanziari

Mettiamo insieme tutti i pezzi del puzzle:

  • I mercati hanno riprezzato violentemente lo scenario macro globale alla fine del 2018;
  • La curva Fed funds prezza 46 punti basi di tagli entro la fine del 2020, in contrasto con le attese dei membri del FOMC;
  • La crescita US è prevista in rallentamento, ma si dovrebbe scongiurare una recessione nei prossimi 18-24 mesi;
  • Il mercato del lavoro continua a supportare il reddito e il consumo, gli indicatori anticipatori suggeriscono una stabilizzazione della congiuntura a livelli consistenti con stime di crescita del 2.5%;
  • La relazione tra salari e occupazione sta ritornando a una forma più consueta, ma persistono i dubbi sul pass-through tra inflazione da salari e prezzi al consumo.

Per gli investitori finali cosa può significare tutto questo? Non scarterei l’ipotesi di ulteriori rialzi da parte della Fed, anche se questo scenario non è la baseline degli analisti di AXA IM, è piuttosto uno scenario di rischio. Un peggioramento delle condizioni finanziarie – i.e un aumento dei tassi d’interesse reali e un apprezzamento del dollaro – può essere il trigger per una correzione dei mercati azionari, in particolare quando le performance sull’anno sono già sopra le medie storiche (S&P +14.3%). Ma non dimentichiamoci dei due fattori chiave: 1) la velocità alla quale i tassi reali salgono e il dollaro si apprezza, e; 2) la presenza o non del “Powell put”, ovvero la fiducia che i mercati ripongono nell’abilità della Fed di prevenire uno shock negativo al sistema.

In conclusione

I mercati non salgono mai in linea retta e dopo una performance a dir poco stellare da inizio anno (un esempio su tutti: era dal 1995 che non si vedeva un trimestre così forte sull’High Yield), è lecito attendersi una pausa piuttosto che una allocazione meno aggressiva. Nonostante ciò, è convinzione dei mercati che i rischi geopolitici tipo “guerra dei dazi” siano parzialmente rientrati e che la Fed si sia ripresa il controllo della fiducia degli investitori. Nei nostri comitati d’investimento abbiamo preso atto di tutto ciò e abbiamo posizionato i nostri portafogli su posizioni più neutrali, con un profilo di rischio leggermente più marcato sugli emergenti sia equity che fixed income.


Alessandro Tentori – CIO – AXA Investment Managers Italia