Il cambiamento climatico entra nel portafogli

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Uno studio di Blackrock analizza l’impatto dei rischi fisici e normativi. E suggerisce come adattare gli investimenti

Si può credere o no al cambiamento climatico prodotto dall’uomo, o rifiutare le tesi scientifiche su cui si basa quella teoria. Fa poca differenza: piaccia o no, il cambiamento climatico è diventato un tema di investimento con cui occorre fare i conti. Ad affermarlo è il più grande gestore mondiale di fondi, l’americana Blackrock, che in tutto il mondo gestisce patrimoni per 4.300 miliardi di dollari. E che al tema ha dedicato un seminario e un studio, The Price of Climate Change, redatto dal BlackRock Investment Institute.

Due, in particolare, gli aspetti rilevanti: il rischio normativo e quello fisico.

E se il secondo è, purtroppo, costantemente d’attualità, sul primo si stanno per accendere i riflettori come mai prima. Il fiume di leggi e regolamenti varati dai Governi di tutto il mondo per ridurre le emissioni di carbonio e altri gas a effetto serra è destinato a trovare un nuovo impulso con la Conferenza sul clima delle Nazioni unite, la Cop 21, che si riunirà a Parigi il prossimo dicembre con l’obiettivo di adottare una serie di impegni molto più stringenti.

I rischi normativi stanno diventando fattori chiave per la redditività degli investimenti, afferma il report di Blackrock. Secondo gli analisti, le azioni delle società più esposte ai rischi fisici e normativi connessi con il clima finora non hanno pagato il prezzo sul piano delle quotazioni, ma potrebbero farlo in futuro.

Gli assicuratori sono particolarmente esposti ai rischi dei disastri naturali. L’enorme uragano Andrew che ha colpito gli Stati uniti nel 1992 ha quasi spazzato via l’industria delle assicurazioni, portando a una rivoluzione nel modo in cui questa affronta i rischi, che passa tra l’altro per l’utilizzo dei “big data” e un aumento della patrimonializzazione.

Altri settori potrebbero dover fare lo stesso.

L’analisi si occupa poi dei fattori Esg (ambientali, sociali e di governance) che, sottolinea, non hanno a che fare soltanto con l’essere “buoni”: l’eccellenza nei fattori Esg è un segno di qualità operativa e gestionale delle imprese, significa capacità di rispondere a un mercato in evoluzione, resilienza ai rischi normativi, e dipendenti più impegnati e produttivi.

Disinvestire dai settori e dalle imprese nemiche dell’ambiente può essere un’opzione. Ma, avverte lo studio, le imprese più inquinanti sono anche quelle che hanno la maggiore capacità di miglioramento. La strada più efficace appare dunque quella dell’”engagement” degli azionisti che, lavorando fianco a fianco con il team di gestione delle imprese possono aiutare a realizzare un cambiamento positivo, soprattutto se si tratta di investitori istituzionali, con posizioni a lungo termine.

I mercati finanziari stanno intanto evolvendo, allargandosi a titoli come i certificati sulle emissioni e i green bond, che mettono gli investitori in grado di limitare l’esposizione al carbonio dei loro portafogli e a dirigere i capitali verso progetti di riduzione delle emissioni.

Gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico produrranno vincitori e vinti, aggiunge lo studio. Ma forse non si tratterà dei più ovvi. L’industria petrolifera e i paesi esportatori di energia potrebbero apparire come i perdenti, ma gli operatori low-cost potrebbero continuare ad andare bene se, come sembra, la de-carbonizzazione sarà graduale.

A beneficiare della transizione verso un’economia “low carbon” saranno sicuramente i titoli azionari e obbligazionari legati alle infrastrutture per le energie rinnovabili. Come anche alcune società, attentamente selezionate, specializzate nell’efficienza energetica e nelle tecnologie pulite.