Tutti i rischi dell’investimento a “km zero”

di Tiziano C. Bellemo * -

Limitare la propria scelta all’area o al Paese di appartenenza è uno degli errori più diffusi. E lo si può pagare caro, in termini di rendimenti

Quando si parla di investimenti, il concetto di diversificazione dovrebbe essere uno dei più noti, meglio compresi e più facilmente accettati da parte di chi deve allocare il patrimonio. Del resto, la frase di Markowitz che esemplifica il concetto, ovvero “non mettere tutte le tue uova in un solo paniere”, sembra facilmente intuibile e chiarisce bene l’idea del rischio di concentrazione dei portafogli. Così invece non è. Come spiega un recentissimo studio della Consob1 il tema della diversificazione è di fatto sconosciuto agli italiani: solo il 6% del campione oggetto dell’indagine del Regolatore ne conosce precisamente il significato. Peraltro, in alcune occasioni una ridotta diversificazione è adottata addirittura con piena consapevolezza: tipicamente ciò avviene a livello di allocazione geografica, quando i portafogli si caratterizzano per una presenza sovrabbondante di attività finanziarie dell’area economica alla quale l’investitore appartiene o del Paese nel quale abita. Questo fenomeno va sotto il nome di domestic (o home) bias.

Le ragioni che spingono l’investitore ad adottare un home bias sono diverse, ma sono tutte riconducibili all’idea che seguendo questa impostazione sia possibile ottenere un vantaggio competitivo e dunque migliorare il profilo rischio/rendimento del portafoglio. La motivazione più ovvia è la vicinanza agli emittenti. La familiarità dell’investitore col “territorio”, col suo funzionamento, lo spinge a pensare di poter contare su informazioni più abbondanti e disponibili in modo più tempestivo. E quindi di avere un maggior controllo e una migliore capacità di interpretazione delle notizie.

Questo vale soprattutto in fasi di turbolenza economica e finanziaria, quando l’investitore si sente maggiormente a proprio agio se tiene il denaro investito vicino a sé. La seconda giustificazione è la percezione di maggiore efficienza, ovvero della grande facilità di negoziare gli strumenti finanziari “di casa”, sopportando minori costi. In terzo luogo, in particolare per gli investimenti azionari, il domestic bias poggia sulla convinzione che esiste una modalità ovvia e straordinariamente efficace per diversificare geograficamente: basta acquistare i titoli di una multinazionale, quotata nel mercato domestico.

Ciò genera automaticamente un effetto di diversificazione, grazie ai numerosi mercati dove la società produce e vende i propri beni. Ancora, gli investitori che privilegiano il “km zero” attribuiscono alle attività in valute diverse da quella di riferimento una valenza di rischio puro, piuttosto che percepirle come opportunità di riduzione del rischio specifico. Infine, alcuni mercati sembrano godere di condizioni di maggior attenzione verso gli interessi degli azionisti di minoranza che si possono quindi concentrare sugli investimenti “di casa”, sentendosi maggiormente tutelati.

I motivi che spingono verso l’investimento domestico sono quindi molti e variegati e spiegano perché le forme di home bias continuano a godere di ampia diffusione.

E’ proprio vero che caratterizzare in questo modo le scelte di investimento migliora i risultati di gestione? La risposta alla domanda è un secco no. Anzi, il domestic bias, è fenomeno che la finanza comportamentale ha abbondantemente analizzato, dimostrando che si tratta di un comportamento da evitare perché non offre alcun vantaggio e, anzi, abbassa la soglia di efficienza del portafoglio, riducendone i rendimenti di lungo periodo.

É utile, punto per punto, chiarire le ragioni per cui l’investimento a “km zero” non poggia su basi solide.

1) Il contenuto informativo. Lo sviluppo dei media digitali fa sì che le notizie oggi circolino abbondantemente e siano facilmente fruibili da chiunque, in qualsiasi momento e da qualsiasi parte del mondo provengano. Essere fisicamente vicini alla fonte non è pertanto fattore critico di successo. Lo è invece la capacità di interpretare i dati nel modo giusto e di correlarli opportunamente ed efficacemente alle decisioni finanziarie.

2) L’efficienza. Se si esclude la possibilità di negoziare singoli titoli quotati su borse esotiche, ma più sensatamente si ricorre a veicoli più appropriati (come fondi comuni o Etf), la tecnologia e l’aumentata offerta di strumenti finanziari rendono oggi possibile investire ovunque nel mondo, su ogni asset/sub-asset class, con facilità operativa e a costi che sono sostanzialmente in linea con quelli dei prodotti che operano sui mercati domestici.

3) La diversificazione implicita nell’investimento di titoli emessi dalle multinazionali. E’ stato ampiamente dimostrato2 che l’andamento borsistico dei titoli di società multinazionali riflette da vicino quello del mercato di quotazione e non offre il contributo alla diversificazione che ci si potrebbe teoricamente attendere.

4) Il rischio valutario, come si vedrà in seguito, rappresenta un ostacolo oggettivo alla diversificazione su strumenti finanziari denominati in altre valute. Ma se è intenzione dell’investitore prendere posizione sul solo strumento finanziario sottostante, oggi è possibile eliminare il rischio (e l’opportunità) valutario mediante veicoli di investimento (ancora Etf o fondi comuni) cosiddetti hedged, cioè che coprono il rischio di cambio.

5) Ampliando l’universo di riferimento oltre il mercato domestico è possibile superare i condizionamenti che il portafoglio subisce a causa delle caratteristiche morfologiche di quella specifica borsa, come ad esempio la particolare concentrazione su società a piccola capitalizzazione o su specifici settori. Si pensi per esempio al peso del settore finanziario in Italia o al rilevante numero di small cap che sono quotate nel nostro Paese.

6) Da ultimo, il tema della corporate governance. Alcuni Paesi hanno reso la regolamentazione dei mercati finanziari oggettivamente più robusta, offrendo agli investitori retail forma di protezione molto evolute3. Su queste metriche, maggiore concentrazione sul proprio mercato da parte ad esempio di investitori inglesi è certamente più giustificabile rispetto all’analogo comportamento di un italiano o di un tedesco. Questo sembra essere l’unico elemento che può razionalmente portare alla maggiore concentrazione di portafoglio sul mercato di riferimento dell’investitore.

Il fenomeno home bias, generalmente più evidente nel mondo del reddito fisso, è ben radicato anche in quello azionario e così generalizzato da caratterizzare il comportamento degli investitori di qualsiasi Paese. Un ricerca del marzo 20144 riferita al bias comportamentale nel mondo equity mostra che alla fine del 2012 gli Stati dell’Unione Europea avevano un’incidenza di azioni domestiche sul totale dell’investimento azionario in un intervallo compreso tra il 45 e il 66% (la Spagna era l’outlier, addirittura con un dato superiore al 90%), valori complessivamente in riduzione tra il 2001 e il 2008, ma poi risaliti in seguito allo scoppio della Great Financial Crisis (Gfc).

Leggermente più alti, ma non molto diversi, sono i riferimenti per gli investimenti domestici in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, rispettivamente pari al 62 e al 69%. Degno di nota è il fatto che nei Paesi che appartengono all’Unione Europea, e che condividono la valuta unica, il domestic bias si sia ridotto nel periodo osservato. Ciò conferma che il rischio valutario è uno tra i motivi che maggiormente scoraggiano e ostacolano la diversificazione geografica (ma che, come visto, oggi è facilmente aggirabile).

In tutti i casi descritti dalla ricerca, è evidentissimo che la presenza di azioni domestiche nei portafogli degli investitori di ciascun Paese è ben superiore al peso del corrispondente mercato nell’indice Msci delle borse mondiali. Ora, non è detto che questo parametro offra un valore oggettivo di riferimento adatto a ciascun investitore. Ma è chiaro che rappresentare una borsa 10 o 20 oltre il peso “neutrale” rappresenta una soluzione di portafoglio decisamente sub-ottimale.

L’effetto distorsivo dell’home bias sull’andamento di un portafoglio azionario può essere osservato chiaramente confrontando la performance relativa degli indici Msci di alcune aree geografiche, su diversi orizzonti di tempo.

Prendiamo in considerazione due periodi. Il primo copre l’arco temporale tra il gennaio 1999 e il settembre 2016, ovvero tra lo sviluppo e lo scoppio della bolla internet e i nostri giorni. Si tratta di un periodo caratterizzato da molte fasi di mercato eterogenee tra loro, al rialzo o al ribasso, dove stili di gestioni altrettanto eterogenei si sono alternati, attraversato da cicli macro differenti per ampiezza e intensità. Il secondo parte invece dai minimi delle borse successivo alla deflagrazione della Gfc (febbraio 2007), fase di mercato contraddistinta dalla peggior recessione dal ’29 a questa parte e scandita dagli effetti delle aggressive politiche monetarie delle principali Banche Centrali mondiali. 

home bias 1999 2016Fonte Msci – Indici con dividendi reinvestiti, in valuta locale. Gennaio 1999 – settembre 2016.

Nel periodo 1999-2016, (grafico qui sopra) l’investimento in sole azioni italiane mostra ritorni negativi (-7,4%) insieme alla più alta volatilità. L’efficienza di un ipotetico portafoglio sarebbe peraltro considerevolmente aumentata includendo, rispettivamente, l’Eurozona (che ha un rendimento di +72%), l’Europa o il Resto del Mondo ex Usa (performance, rispettivamente, pari a +103% e + 97%). Il valore del portafoglio avrebbe poi raggiunto il massimo grazie all’investimento in tutti i mercati internazionali (+115%).

home bias 2007 2016Fonte Msci – Indici con dividendi reinvestiti, in valuta locale. Febbraio 2007 – settembre 2016.

Restringendo l’osservazione al sotto-periodo che ci separa dal febbraio 2007, le evidenze sono ancor più nette, come mostra il grafico qui sopra. La borsa italiana fa registrare un andamento profondamente negativo (-42%). E, ancora una volta, diversificare e guadagnare esposizione quantomeno all’Eurozona e, via via alle altre borse internazionali, avrebbe offerto maggiore redditività e stabilità al portafoglio, come mostra la tabella qui sotto.

home bias tabella
Rendimenti dell’investimento negli indici Msci delle borse indicate, con dividendi reinvestiti, in valuta locale. Sottoperiodi gennaio 1999/settembre 2016 e febbraio 2007/settembre 2016.

In conclusione, un investitore italiano che in modo più o meno consapevole avesse seguito un home bias e nel tempo avesse sistematicamente preferito acquistare attività finanziarie (segnatamente azioni) domestiche (italiane e, in misura minore quelle della Zona Euro), non avrebbe ottenuto alcun vantaggio. Si è anzi dimostrato il contrario, sia dal punto di vista dell’inconsistenza della maggior parte delle motivazioni sulle quali l’home bias si regge, sia osservando l’andamento degli indici della borsa italiana rispetto a quelle dell’Eurozona e di tutte le altre borse mondiali, su differenti orizzonti temporali.

* Senior advisor e docente Liuc

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Note:
1) Rapporto sulle scelte di investimento delle famiglie italiane – settembre 2016.
2) Si veda ad esempio Philips, Christopher B., Francis M. Kinniry Jr., and Scott J. Donaldson, 2012. The Role of Home Bias in Global Asset Allocation Decisions.
3)Doing business 2016. World Bank.
4)Determinants of home bias puzzle in European countries. Othmani, Saanoun e Ben Arab – International Review of Management and Business Research, marzo 2014.
5) Rappresentato dal peso di quel mercato nell’indice Msci.