Cina e Russia: Cortine di ferro 2.0

-

La decisione di condurre una guerra di aggressione dev’essere maturata nel presidente russo Vladimir Putin solo pochi giorni prima dell’invasione del 24 febbraio, quando ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping in occasione delle Olimpiadi di Pechino. Se infatti Xi non avesse promesso almeno la neutralità della Cina nel conflitto, Putin ci avrebbe probabilmente pensato due volte prima di inviare le sue truppe in Ucraina. In effetti Xi non ha condannato il piano di attacco di Mosca, il che a nostro avviso lo rende in parte responsabile della sofferenza inflitta all’Ucraina.

Non ci sarebbe da stupirsi se tra qualche anno si venisse a creare una nuova “cortina di ferro”, per giunta molto più rilevante dal punto di vista economico di quella tenuta in piedi dalla Guerra Fredda fino alla fine degli anni ‘80. A quel punto anche l’Europa sarebbe costretta a decidere se commerciare con l’Occidente capeggiato dagli USA o con i paesi filo-cinesi. Tutt’altro che buone notizie per le nazioni esportatrici come ad esempio la Germania.

Una cosa è certa: la Repubblica Popolare Cinese considera da sempre Taiwan come una “parte inseparabile del territorio cinese” – quadro che Xi intende realizzare, al più tardi entro la fine del suo mandato, annettendo Taiwan alla Cina. Il leader asiatico, però, vuole essere molto più preparato del Putin che ha ordinato l’attacco all’Ucraina, motivo per cui la sua curva di apprendimento è al momento molto ripida.

Con questo conflitto, Xi dovrebbe aver capito che l’Occidente è molto più coeso nell’affrontare la crisi di quanto si credesse. Naturalmente le cose potrebbero andare diversamente nel caso di un conflitto con Taiwan, che è geograficamente lontano dalla maggior parte degli Stati. In fin dei conti, però, si tratta di circostanze che il presidente cinese difficilmente può prevedere, figuriamoci influenzare. A ogni modo, Xi può già farsi un’idea dei sistemi che le sanzioni economiche occidentali sono in grado di pregiudicare: a partire dalle carte di credito, che non si possono più utilizzare nemmeno per pagare la metropolitana, fino all’esclusione dal sistema Swift, con conseguente impossibilità di effettuare pagamenti internazionali, passando per la questione della sicurezza delle riserve in valuta estera detenute fuori dal paese. Il Piano quinquennale del Partito ha già chiarito come Pechino ambisca all’indipendenza energetica e tecnologica della Cina – due temi destinati ora ad acquisire ancora più importanza.

In questo conflitto si osserva un maggiore ricorso alle sanzioni economiche rispetto al passato, sia da parte dei governi, sia dei consumatori, che hanno iniziato a esaminare con più attenzione le catene di approvvigionamento. Di conseguenza, molte aziende attive a livello globale hanno reagito con cautela, sospendendo per il momento le operazioni commerciali in Russia. Anche gli investitori devono tenere conto di questi aspetti quando valutano le società attive a livello globale. Secondo la tassonomia dell’Unione Europea, gli investimenti in Cina sono ancora considerati sostenibili. In realtà, analizzando più a fondo i criteri di classificazione, appaiono già oggi i una posizione di criticità.

All’inizio della “globalizzazione”, cioè dalla fine degli anni ‘90 in poi, agli investitori veniva spesso consigliato di investire dove la crescita era particolarmente sostenuta. In Cina però, nonostante l’enorme espansione economica degli ultimi decenni, le azioni – misurate dall’indice Hang Seng della Borsa di Hong Kong – non sono cresciute con lo stesso vigore. Anzi, da circa due anni il mercato è tendenzialmente sotto pressione, a causa delle strette regolamentari, in particolare sui settori high-tech e dell’istruzione.

Tanto che oggi le aziende cinesi redditizie si chiedono quanto possono guadagnare per conformarsi all’obiettivo della “prosperità per tutti”.

Oggi per gli investimenti in Cina bisogna calcolare un notevole premio al rischio, che mette quindi in discussione i rapporti prezzo-utili (P/E) spesso bassi. In realtà, dei rapporti P/E bassi sono già di per sé insidiosi. Dopo tutto, se un’auto viene venduta su Internet ad un prezzo di gran lunga inferiore al normale, è naturale chiedersi dove sia l’imbroglio.

Non è tutto: al momento la Cina sta attraversando un processo di trasformazione. Nella prima fase dell’apertura economica, l’obiettivo principale è stato l’urbanizzazione di un’economia a lungo dominata dall’agricoltura. Il paese ha iniziato a costruire fabbriche, con tutti gli immobili e le infrastrutture del caso. Col tempo l’attenzione si è poi spostata sullo sviluppo di una moderna società dei servizi. In queste fasi di transizione, le flessioni economiche (dopo anni di crescita) sono frequenti. E così la locomotiva della congiuntura globale sta perdendo slancio.

Inoltre la Cina sta tenendo il mondo in sospeso con una sorta di lockdown permanente. Il paese cerca infatti di contenere la pandemia di coronavirus con una politica “zero Covid”, che a livello di salute pubblica è piuttosto comprensibile, visto lo scarso tasso di immunizzazione e l’utilizzo di vaccini meno efficaci di quelli occidentali. Il risultato è un susseguirsi di interruzioni alle catene di fornitura, che rallentano non solo la crescita cinese ma anche quella globale. Anche senza guerra in Ucraina, la sola strategia cinese “zero Covid” avrebbe probabilmente causato una correzione sui mercati dei capitali.

Implicazioni per gli investitori

Alla fine è impossibile stabilire oggi se Pechino adotterà un approccio più pragmatico nei confronti del Covid in futuro. Ma in ogni caso gli investitori non dovrebbero lasciarsi incantare dagli elevati tassi di crescita del passato. Sono già rimasti scottati dalle azioni russe e oggi, a prescindere dalle performance, è da quasi un mese che le negoziazioni sono sospese. Le obbligazioni dal canto loro sono considerate pressoché “tossiche” e il rublo – a differenza del dollaro US – è molto meno adatto alla diversificazione valutaria.