Grandi cambiamenti macroeconomici in atto, quali prospettive per le banche centrali?

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Gli attuali temi macroeconomici dominanti sono in realtà in atto da tempo. I recenti eventi globali li hanno solo accelerati. Il contesto economico post Grande Crisi Finanziaria, caratterizzato da una bassa domanda e da un’inflazione debole si è ormai esaurito, generando, a nostro avviso, enormi implicazioni per i mercati. La manodopera nazionale e le materie prime al momento scarseggiano, il che forzerà un cambio di potere finanziario. Qualcosa che i mercati dovranno prezzare nel tempo.

La politica monetaria è ancora settata sul “vecchio mondo” e necessita di adeguamenti, con l’inflazione tenuta sotto controllo tramite l’aumento dei tassi d’interesse per irrigidire le condizioni finanziarie, continuando di conseguenza a minare i rendimenti degli asset di mercato.

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Speriamo tutti di vedere la fine dell’invasione dell’Ucraina, tuttavia riteniamo improbabile che la riduzione del rischio geopolitico possa modificare in modo sostanziale le pressioni inflazionistiche a livello globale. L’inflazione statunitense è attualmente all’8,5%, e questo già prima che si dispiegassero gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina.

Crediamo, infatti, che l’inflazione sia un fattore molto più ampio da prendere in considerazione, trattandosi di un fenomeno con diverse sfaccettature che non è ancora completamente sotto controllo. Basta guardare l’attuale politica dei tassi sostenuta dalla Fed pari allo 0,5%, per comprendere quanto i tassi di interesse siano inferiori rispetto all’inflazione stessa. E questo non riguarda solo gli USA, ma tutto il mondo. Il problema peggiore è in Europa, dove i tassi di interesse hanno raggiunto valori negativi mentre l’inflazione in Spagna corre intorno al 10%.

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Le banche centrali saranno impegnate…

L’inflazione sembra essere pervasiva. Le catene di approvvigionamento continuano a subire interruzioni, una situazione che sarà ulteriormente aggravata dai nuovi lockdown in Cina. I prezzi dei prodotti sono ancora elevati (in realtà non sono mai scesi) mentre i prezzi dei servizi stanno recuperando, spinti da una domanda solida dei consumatori.

I mercati delle materie prime erano già tesi a causa di ritardi nelle consegne.

L’invasione russa dell’Ucraina ha ulteriormente peggiorato il gap in tema di approvvigionamento, accelerando la salita dei prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari.

E guardando ai driver più tradizionali legati all’inflazione – affitto e crescita dei salari – quest’ultimi sono elevati e in aumento.

Nel mondo post Covid, i bassi tassi di disoccupazione nei mercati del lavoro occidentali delle categorie più senior sono significativi. Il potere contrattuale dei lavoratori sta aumentando con il diffondersi della carenza di manodopera, il che ribalta la questione dell’invecchiamento della forza lavoro sul mercato obbligazionario.

La preoccupazione maggiore per le banche centrali è che si sviluppi una spirale salari-prezzi e che le aspettative di inflazione si allontanino dalla soglia psicologica del 2%. Neppure una crescita rallentata degli ultimi mesi ha comportato evidenti preoccupazioni per le banche centrali.

In parole semplici, riteniamo che la politica monetaria sia troppo accomodante e che sia necessario alzare i tassi d’interesse rapidamente. I tassi reali (rendimenti obbligazionari al netto dell’inflazione) rimangono ben al di sotto dello zero, il che è ottimo per il Nasdaq, ma non per le famiglie a basso reddito che devono sostenere il peso di prezzi più alti.

Grandi cambiamenti macroeconomici in atto

Guardando oltre, le priorità del governo sono cambiate negli ultimi anni e il passaggio a una maggiore autosufficienza energetica è stato solo accelerato dagli eventi recenti. La spesa è destinata a crescere per promuovere la transizione e l’indipendenza energetica, la difesa e la delocalizzazione delle catene di approvvigionamento.

Si può solo speculare su ciò che la deglobalizzazione potrebbe significare per l’inflazione futura. Il commercio globale in termini % del PIL ha raggiunto il picco nel 2008 e da allora è in calo.

La ricaduta dell’aggressione russa sembra sintomatica di questa tendenza più ampia, infatti la guerra commerciale tra USA-Cina è ancora in corso. Se il trend continua, la delocalizzazione delle catene di approvvigionamento diventerà sempre più importante a mano a mano che i singoli paesi cercheranno di ridurre la loro dipendenza in termini di energia, prodotti di consumo e materie prime in generale.

Le conseguenze potrebbero essere profonde: maggiori costi di produzione, riduzione dei margini, maggiori investimenti di capitale, maggiore pressione salariale e, in definitiva, maggiore inflazione. Per quanto riguarda le materie prime, potrebbe iniziare a crescere un premio su di esse man mano i governi occidentali cerchino una fornitura affidabile di energia e di materie prime, mettendo il prezzo in secondo piano. Senza le commodity russe, il mondo occidentale deve affrontare scelte difficili, come dimostra la bizzarra decisione di Biden di inviare una delegazione statunitense in Venezuela.

È un mondo molto diverso da quello pre-Covid, con più spesa fiscale e investimenti. Dal nostro punto di vista, i tassi d’interesse reali dovranno aumentare perché, molto semplicemente, non tutti potranno spendere contemporaneamente. Se gli Stati Uniti tentassero di reindustrializzarsi anche solo in minima parte, senza riserva di manodopera, le implicazioni macro sarebbero enormi. O si verifica un miracolo della produttività statunitense, o l’inflazione rimarrà alta e pressante.

Rallentamento della crescita?

Tornando al presente, riconosciamo che il percorso verso tassi di interesse globali più alti attraverso livelli di inflazione elevati comporta rischi di crescita. La Cina, che ha reintrodotto il lockdown in aree geografiche che rappresentano il 25% del suo PIL, desta ovviamente preoccupazione, tant’è che sta già danneggiando gli indicatori di attività dei servizi cinesi, contribuendo alle preoccupazioni sull’ inflazione.  Fortunatamente i casi gravi di Covid sono ancora limitati nel Paese anche se in tutta l’Asia si sta assistendo, come in Europa, ad un rimbalzo della curva mettendo in discussione la politica “zero Covid”. La crisi del costo della vita e gli alti prezzi dei prodotti stanno colpendo i consumatori occidentali e, in misura minore, le imprese, ma questo è un tema che deve essere affrontato dai governi e non dalle banche centrali a nostro avviso. Con livelli di inflazione così alti, è necessaria una flessione della crescita per frenare le pressioni della domanda, quindi non è qualcosa che verrà affrontato dalle banche centrali.

Il problema per le banche centrali è l’aumento significativo dell’inflazione, aumento non corrisposto sul fronte dei tassi reali che non sono andati allo stesso passo. Ciò ha comportato un allentamento delle condizioni finanziarie, situazione opposta a quanto vorrebbero le banche centrali, e la necessità di alzare i tassi nominali molto di più per generare un impatto. Ci chiediamo quale sia adesso il “tasso neutrale”. Nessuno, inclusa la Fed, ha la risposta.

Così, dato che l’inflazione e la crescita rimarranno alte, crediamo che il mercato attribuirà un premio di rischio ai tassi sul lato breve della curva fino a quando non ci sarà maggiore chiarezza.

In un contesto di inflazione elevata è possibile un’inversione della curva dei rendimenti. La curva dei rendimenti reali è “indicatore di recessione” accurato ed ha ancora una pendenza verso l’alto, il che suggerisce che le banche centrali non stanno ancora facendo abbastanza. Tuttavia, riteniamo che i discorsi sulla curva dei rendimenti siano fuorvianti e che il contesto di crescita sia solido. Finora gli ostacoli sono stati ben gestiti, ma i prossimi mesi rappresenteranno uno scoglio duro da superare per l’economia globale, principalmente a causa dei rischi legati al comparto energia in Europa. Restiamo ottimisti ma prestando attenzione ai rischi.

A nostro avviso i tassi di interesse sono ancora troppo bassi nelle economie sviluppate, soprattutto negli Stati Uniti. Nonostante i timori di una recessione, gli Stati Uniti non sono mai entrati in una con tassi reali negativi. I tassi reali sono vicini ai minimi storici e il mercato del lavoro negli Stati Uniti è incredibilmente forte. Questo allontana lo spettro di una possibile imminente recessione, almeno fino a quando i tassi di interesse non aumenteranno in modo sostanziale. Dal nostro punto di vista la recessione che molti invocano è un modo errato di vedere le cose, perché il mondo nel frattempo è cambiato. Una ripresa forte e cambiamenti strutturali hanno generato inflazione insieme a sacche di debolezza della crescita. Ma sono i tassi di interesse più alti, non quelli più bassi, che sono necessari durante una transizione dell’economia globale.