Quando l’overshooting non è necessariamente un errore di policy
Ciclo trainato dagli USA
Il conflitto in Ucraina va ad incidere su uno scenario macroeconomico già complesso. Mettendo a forte rischio il percorso di ripartenza post-COVID dell’Europa, in un momento in cui la Cina sta incontrando grandi difficoltà nella gestione della pandemia (rischiando di mancare il target del 5% di crescita per il 2022), la guerra non fa altro che alimentare i timori di una decisa frenata della crescita economica globale, che potrebbe sfociare in una recessione.
Al momento, a trainare il ciclo sono gli Stati Uniti, meno sensibili allo shock stagflattivo provocato dal conflitto in virtù sia della loro indipendenza energetica che della lontananza geografica dalle aree di combattimento. Il momentum dell’economia statunitense pare solido, nonostante il calo osservato di recente nel sentiment di consumatori e imprese. L’unico campanello d’allarme giunge dal settore immobiliare: complici tassi sui mutui in forte aumento, l’attività di costruzione e acquisto di immobili sta infatti rallentando in modo evidente, da sempre un segnale di rischio di un’imminente recessione. Tuttavia, nel Paese nord-americano l’attività economica è ancora robusta, specialmente sul fronte dei consumi, dove la domanda di beni sta sostenendo anche le esportazioni di eurozona e Cina, e la recessione ad oggi non pare uno scenario affatto probabile (si veda Fig. 1).
Overshooting sui tassi?
Questo contesto di economia che viaggia a pieno regime, supportato anche da un mercato del lavoro in gran parte guarito dalle ferite inferte dal COVID, sembra giustificare l’atteggiamento più intransigente nei confronti dell’inflazione da parte della Fed. La banca centrale ha di fatto abbandonato in fretta la FAIT (Flexible Average Inflation Target), con cui dichiarava una certa tolleranza nei confronti della risalita dei prezzi, per tornare a prioritizzare la stabilità di questi ultimi nell’ambito del suo duplice mandato (stabilità dei prezzi e piena occupazione). Nonostante il picco inflazionistico sia verosimilmente alle spalle (più alto del previsto, all’8,6%) e nonostante la guerra non abbia cambiato in realtà la natura dell’inflazione, un’inflazione da offerta che difficilmente si può contrastare tramite manovre di politica monetaria, la Fed ha di recente inasprito ulteriormente il proprio atteggiamento. La banca centrale si è detta pronta a fare overshooting e portare i tassi al 2,8%, per poi tornare indietro al tasso neutrale del 2,4%. Il mercato è stato convinto dalla retorica della Fed, tanto da prezzare già oggi un ciclo di rialzi e un successivo ciclo di tagli dei tassi, ma teme che l’intransigenza dell’istituto centrale possa tramutarsi in un errore di policy simile a quello compiuto nel 2018.
Tuttavia, il ciclo economico attuale è anomalo, caratterizzato da un’inflazione che viaggia in modo asincrono rispetto alle altre variabili macro: significativamente, come mostrato dalla Fig. 2, le curve delle aspettative di tassi e inflazione statunitensi seguono percorsi speculari finendo per incrociarsi per la prima volta nella storia (questo andamento distonico porta i tassi reali a fine corsa in territorio positivo). Di conseguenza, se si guarda alla curva dei tassi reali, senza dubbio più indicativi in questo contesto, non si riscontra l’overshooting registrato sulla curva dei tassi nominali e il rischio di un errore di policy della Fed perde di rilevanza (si veda Fig.3).
In sostanza, la banca centrale è stata sinora indotta ad essere aggressiva sui tassi nominali (a causa del susseguirsi di shocks inflattivi), molto meno su quelli reali. L’interrogativo principale per gli investimenti è se la Fed sia disposta ad un overshooting significativo anche dei tassi reali pur di contenere l’inflazione. La nostra sensazione è che l’orientamento del FOMC sia quello di tentare un cosiddetto ‘soft landing’ attraverso una rapida rimozione dello stimolo, fino ad arrivare a tassi reali sui Fed Funds appena sopra lo 0%, senza andare però oltre (come prescriverebbe invece la regola di Taylor a fronte di un’inflazione ben sopra l’obiettivo), onde minimizzare il rischio di errore di policy.
Il Quantitative Tightening (QT)
Oltre ai movimenti sui tassi sui Fed Funds, l’altro timore dei mercati è legato alla volontà, ribadita dalla Fed, di voler procedere con il Quantitative Tightening, ovvero il riassorbimento di liquidità effettuato lasciando andare a scadenza i titoli detenuti. Effettivamente, però, dal 2021 la Fed ha già iniziato a ritirare liquidità dal sistema attraverso le operazioni di mercato aperto di reverse repo o RRP (i nostri pronti contro termine), con cui la banca centrale ha riassorbito il denaro immesso tramite QE (120 miliardi di dollari al mese). Si può dire, quindi, che dal punto di vista tecnico il QE era già di fatto terminato, per quanto non ne fosse stata annunciata ufficialmente la fine per non disturbare i mercati. Se lo ‘stock’ di RRP, attualmente pari a circa 1.700 miliardi di dollari, fosse ridotto di pari passo con il QT, la liquidità rimossa da quest’ultimo sarebbe compensata dalla riduzione di quella assorbita tramite RRP. La normalizzazione del bilancio della Fed potrebbe dunque rivelarsi molto meno traumatica rispetto a quanto temuto.
L’effetto complessivo di questa manovra restrittiva (rialzo dei tassi combinato con riduzione del bilancio, senza tener conto dei RRP) equivale a un rialzo del 6% del cosiddetto shadow rate (stimato convertendo le misure di QE/QT in rialzi/tagli dei tassi), un inasprimento allineato a quanto fatto nel corso dell’ultimo ciclo e di cui metà è stata già compiuta. Ricordiamo che a fine 2018 la Fed ha dovuto interrompere il QT prima del previsto e anche oggi, se non lo sterilizza con i RRP o lo compensa con minori rialzi dei tassi (rispetto a quelli oggi prezzati), le incognite del contesto rischiano di rendere le condizioni “climatiche” avverse a un atterraggio morbido.
Europa e Cina (con il contributo del Prof. Altomonte)
A livello valutario, il quadro descritto non può che portare a un rafforzamento del dollaro contro le principali valute. In particolare, visto l’atteggiamento leggermente più morbido di BCE e decisamente divergente di BoJ, sembra inevitabile un prosieguo della svalutazione di euro e yen contro dollaro. Un movimento che favorirà le esportazioni dei Paesi dell’eurozona e del Giappone, che in questo modo importeranno un po’ di crescita dagli Stati Uniti.
Si tratta di una vera e proprio boccata d’aria per l’economia dell’eurozona, duramente colpita dallo scoppio del conflitto in Ucraina e dal conseguente effetto macroeconomico stagflattivo. Sulle prospettive della regione incide in misura determinante l’evoluzione futura della guerra.
Ad oggi, lo scenario di base è quello di un conflitto ristretto a Russia e Ucraina prolungato nel tempo. Questo è senza dubbio uno scenario doloroso per gli aspetti umanitari e sociali, ma anche dannoso per le conseguenze economiche, specialmente se il braccio di ferro sulle ritorsioni commerciali e finanziarie si intensificherà, come prevedibile.
La strategia del mondo sviluppato sembra quello di mettere sotto crescente pressione la Russia tramite l’imposizione graduale di sanzioni sempre più severe. Dopo aver recentemente bloccato le esportazioni verso la Russia dei fondamentali prodotti tecnologici, la prossima mossa annunciata è quella dell’embargo totale sui prodotti petroliferi russi. In questo modo, il Paese a cavallo tra Europa e Asia avrà sempre meno accesso a valuta forte e si troverà costretto a dover prosciugare le proprie riserve in valuta, un’eventualità che dovrebbe accelerare la fine del conflitto. Il costo economico di questa mossa dovrebbe essere tollerabile per l’UE: il passaggio ad altre fonti di petrolio pare infatti gestibile sopportando costi sostenibili nel breve termine.
Diverso è, invece, il discorso relativo al gas naturale, la cui sostituzione integrale è di fatto impossibile. Prendendo ad esempio l’Italia, è stato stimato che il nostro Paese potrebbe fare a meno solo dell’85% del gas proveniente dalla Russia, attraverso politiche di riduzione dei consumi e di approvvigionamento da fonti diverse.
Due sono le strade che l’UE deve percorrere per far fronte a questa nuova crisi: una maggiore flessibilità fiscale dell’UE (a breve dovrebbe essere annunciata la sospensione del Patto di Stabilità anche per il 2023) e una maggiore integrazione fiscale volta a sostenere la transizione digitale e quella energetica, diventata ancor più determinante per raggiungere l’indipendenza energetica. La cosa interessante da notare in questo mutevole contesto in cui ci muoviamo è che, se con il Next Generation EU era il nord capeggiato dalla Germania a “finanziare” la spesa fiscale del sud più duramente colpito dalla pandemia, oggi è l’ovest guidato dalla Francia di Macron a dover sostenere i Paesi dell’est più impattatati dal rincaro energetico, tra cui Italia e Germania.
Nel quadro globale descritto, resta da analizzare lo scenario per la Cina. La ripresa economica del Paese asiatico è stata bloccata dai nuovi casi di COVID che hanno portato a ripetuti rigidi lockdown, nell’ambito della nota politica zero-COVID. La buona notizia, in tal senso, è che la terapia d’urto adottata dalla Cina si è rivelata sempre efficace nel contenimento dei casi: l’impatto, per quanto intenso, potrebbe quindi essere di breve durata e nei prossimi mesi potremmo assistere a un forte rimbalzo dell’economia asiatica.
A sostegno dell’economia, la banca centrale cinese potrebbe decidersi per una politica monetaria ultra-accomodante e in controtendenza con quella della Fed, capace dunque di sostenere la “circolazione interna” ma anche l’export verso l’estero. D’altronde, il Paese non ha alcun problema legato all’inflazione, assolutamente sotto controllo, per cui la People’s Bank of China ha ampio margine di manovra.
Resta, però, da chiarire la posizione del Paese nel conflitto tra Russia e Ucraina. Finora la Cina si è mantenuta neutrale, focalizzandosi sulle questioni interne, ma Xi Jinping sta perdendo consenso all’interno del partito a causa del fallimento della politica sanitaria (a maggio 2020 aveva dichiarato il COVID un problema superato) e questo potrebbe aprire a scenari sinora inesplorati.
Mercati finanziari
In questo primo quadrimestre del 2022, i mercati finanziari registrano le peggiori performance da molti anni, soprattutto se su considera che le due principali classi di attività, azioni e obbligazioni, registrano perdite simili (MSCI World euro hedged -12%; Global IG Bonds -11%). A rendere particolarmente arduo per gli investitori il compito di proteggersi è anche la rapida successione dei diversi shock, ciascuno caratterizzato da specifici fattori di rischio e ripercussioni sulle valutazioni finanziarie.
Il voltafaccia della FED, seguito da quello di BoE e BCE, ha un impatto negativo diretto sulle obbligazioni che, salvo quando già scontato, tende a propagarsi anche alle azioni. L’impulso parte dai rendimenti reali delle obbligazioni (BY) e trascina anche gli Earnings Yield (EY) azionari (inverso del rapporto prezzo/utili). Gli eventi che fanno aumentare i fattori di incertezza, come la guerra tra Russia e Ucraina, tendono invece a far dilatare la differenza tra BY e EY, ovvero il premio di rischio azionario. Nel primo caso vi sono pochi modi per difendere il portafoglio, nel secondo si può ricorrere tatticamente alle obbligazioni e, per gli investitori non statunitensi, al dollaro.
Da inizio anno, possiamo già identificare 5 fasi caratterizzate da diversi tipi di segno e/o correlazione dei movimenti delle varie asset class, il che rende l’idea dell’asperità della attuale cornice d’investimento. Ciò detto, se, come ipotizzato, il grosso del movimento nelle condizioni finanziarie perseguito dalla Fed è alle spalle (ipotesi che sarà validata solo da un rientro convincente dell’inflazione), allora anche i mercati potrebbero avere una seconda metà dell’anno meno accidentata.
Come conseguenza del movimento di mercato causato dalle novità sul fronte della politica monetaria e dello scenario geopolitico, il rendimento ex-ante delle attività finanziarie statunitensi (misurato come somma tra l’EY delle azioni e il rendimento reale a scadenza dei bond a 10 anni) è aumentato significativamente nel corso degli ultimi mesi, portandosi dal 3,5% di fine estate 2021 al 5,5% attuale.
Chiaramente, quanto detto in precedenza sulle reali intenzioni della politica monetaria ha un impatto sulle valutazioni dei mercati finanziari: il livello del rapporto prezzo/utili è oggi coerente con tassi di interesse reali attorno allo zero. Anche le previsioni della crescita degli utili, circa +10% sia per il 2022 che per il 2023 a livello globale, sono coerenti con un percorso bonario della normalizzazione monetaria e con uno scenario geopolitico quantomeno non deteriorato rispetto a quello attuale. Quest’ultima affermazione ci ricorda, quindi, che ci sono rischi concreti di revisioni al ribasso sulle previsioni degli utili aziendali: gli analisti stanno di fatto già iniziando a tagliare le loro stime.
La natura e la dinamica dell’inflazione si fanno sentire soprattutto sui margini di alcuni settori, in particolare laddove la struttura di costi è molto esposta alle materie prime o per quei settori che operano con alta intensità del fattore lavoro. Una parte del mondo industriale è esposto ad entrambe queste dinamiche, mentre la situazione sembra meno compromessa per alcune aree della tecnologia e della farmaceutica. In sintesi, il 70% delle aziende che compongono (in termini di capitalizzazione di mercato) l’indice azionario mondiale sta subendo revisioni al ribasso della redditività.
Ci sono due elementi che temperano però, almeno in parte, i fattori negativi. In primo luogo, le valutazioni eccessive che hanno caratterizzato negli ultimi trimestri alcuni segmenti dello stile growth si sono normalizzate, siamo tornati ora ai livelli dell’epoca pre-COVID. In secondo luogo, si sono registrati dei movimenti di mercato tipici delle fasi recessive: la sovraperformance dei settori iper-difensivi come utilities e consumer staples e l’enorme sottoperformance delle small cap americane sono tipiche di un mercato che si sta convincendo che siamo oramai inevitabilmente diretti verso una contrazione economica, se non verso una vera e propria fase stagflattiva.
In conclusione, dal punto di vista fondamentale non mancherebbero di certo i motivi per scelte di portafoglio e di asset allocation iper-difensive, ma le attività finanziarie si sono probabilmente già posizionate a metà strada tra uno scenario di rallentamento economico e uno di recessione.