Asset allocation, persiste il rischio di tassi più elevati a lungo

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In uno scenario economico che stava iniziando a superare gli shock stagflattivi generati dalla guerra e dalla pandemia di COVID-19, a marzo si è aggiunto il fallimento o la crisi di alcuni istituti finanziari americani ed europei. Sono fallite due banche statunitensi: la Silicon Valley Bank e la Signature Bank, non del tutto trascurabili trattandosi in ogni caso della sedicesima e ventinovesima banca statunitense. Inoltre, un altro istituto californiano, la First Republic, la quattordicesima banca per dimensioni, è stata tenuta in vita solo con iniezioni di liquidità da parte delle maggiori banche e dalla Federal Reserve.

Le istituzioni hanno evitato una possibile corsa agli sportelli, che pur partendo dai depositi non assicurati, ovvero quelli superiori ai 250.000 dollari, avrebbe potuto scatenare il consueto effetto domino tipico delle crisi bancarie. Poco dopo, in Europa le autorità svizzere hanno dovuto congegnare il salvataggio di Credit Suisse ad opera di UBS, che era già stata salvata nel 2009. In entrambi i casi, in America e in Europa, si tratterebbe di situazioni a sé stanti caratterizzate da cattiva gestione o specificità idiosincratiche, per esempio mismatch nel portafoglio di titoli rispetto alle passività o perdite pregresse.

Tuttavia, non per questo quello che è successo è privo di conseguenze macroeconomiche: anche se si è evitato un credit crunch istantaneo, la sostituzione di depositi con le life-line delle istituzioni, ad esempio il Bank Term Funding Program (BTFP) varato ad hoc dalla Federal Reserve, ha infatti comportato un forte aumento del costo delle passività per le banche e una conseguente erosione profonda della redditività degli istituti su cui si è intervenuti come la First Republic.

In qualche misura è facile immaginare come questa ricomposizione del passivo possa propagarsi a partire dal sistema delle banche regionali statunitensi, con conseguenze negative sull’erogazione di credito, in particolare nel settore degli immobili commerciali, finanziato per l’80% proprio da istituti minori, soggetti a una regolamentazione meno stringente. Sia che il business migri altrove, sia che la regolamentazione diventi più stringente per un maggior numero di intermediari, la conseguenza potrebbe essere un freno all’attività economica di non facile quantificazione. Nel frattempo, i dati macroeconomici rilasciati sono stati mediamente poco al di sopra delle attese, in particolare hanno visto una flessione nei sondaggi relativi all’attività economica americana, sia sul fronte manifatturiero che su quello dei servizi, dove siamo a livelli compatibili con una recessione nel corso dei prossimi trimestri. Non a caso la previsione di una recessione nei prossimi 12 mesi è risalita lievemente, attestandosi intorno al 65% secondo il Bloomberg consensus. Persino gli economisti della Federal Reserve prevedono una recessione lieve, cosa abbastanza inusuale, come abbiamo appreso dalla loro riunione tenutasi lo scorso 22 Marzo. Il mercato del lavoro americano resta forte in termini occupazionali con la disoccupazione scesa al 3,5% durante marzo, ma con aumenti salariali al 4,2% in rallentamento rispetto al 4,6% del mese precedente. L’inflazione americana scende di un punto pieno al 5%, anche se quella core aumenta di un decimale al 5,6%.

Analogamente in Europa, l’inflazione headline è scesa dal’8,5% al 6,9%, mentre l’inflazione core ha registrato un aumento di un decimale, anche se inferiore al previsto, al 5,7%. Tutto considerato il quadro macro resta dunque discreto, ma con meno enfasi sugli effetti positivi della riapertura cinese, che stentano a manifestarsi e con una possibile aggravante con una minore accessibilità al credito, almeno negli Stati Uniti. In questo quadro le banche centrali sembrano intenzionate a perseguire la stabilizzazione dei prezzi, potendo contare su altri mezzi per contrastare l’eventuale tensione finanziaria, utilizzando mezzi di liquidità.

Tuttavia, il livello terminale di tassi previsto dalla Fed nei suoi Summary of Economic Projections di marzo è rimasto lo stesso indicato a dicembre, poco sopra il 5% con un ulteriore rialzo di 25 punti base da oggi previsto per il 3 maggio. È quindi rientrata la prospettiva promossa a fine febbraio di arrivare più vicino al 6%. La BCE mantiene una retorica alquanto da falco, pur avendo abbandonato la forward guidance in occasione della scorsa decisione del 15 marzo, in cui aveva rialzato di mezzo punto.

Riteniamo probabile ancora un paio di rialzi da 25 punti base, fino al raggiungimento del 3,5% come punto d’arrivo del ciclo restrittivo. Sarà importante osservare se questa maggiore cautela nei rialzi si tradurrà in una maggiore persistenza dell’inflazione. La previsione del mercato è, dunque, in linea con i livelli citati dalle banche centrali per il picco di questo ciclo di restrizione, mentre appare alquanto divergente riguardo all’evoluzione successiva: il mercato prevede, infatti, negli Stati Uniti, tagli fino al 4,2% già nel corso di quest’anno e quasi un altro punto nel 2024. Non è implausibile dato che la Fed ci ha educati a immaginare cambi anche repentini di comportamento, ma per questo scenario secondo noi è necessaria un’ulteriore degenerazione del quadro di crescita o recessione, oppure un credit crunch grave, che sia presagio di recessione. In pratica il mercato risulta un po’ sospeso tra l’ottimismo di inizio anno e la paura di una recessione e i valori espressi sia dalla curva dei rendimenti obbligazionari, che dalle valutazioni azionarie, risultano una linea intermedia tra questi due scenari. Ciò rende le obbligazioni vulnerabili in caso di no landing e viceversa l’azionario decisamente caro nel caso di una recessione appena più che tecnica. Come già detto il mese scorso, il rischio di “higher for longer”, ovvero di tassi più elevati per un periodo protratto, è il nodo più evidente per gli attivi a rischio. Comprare protezione attraverso strutture opzionali come put su indici, per esempio, resta una cautela interessante e ancora praticabile.