Dal picco dei tassi al tetto del debito statunitense

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Con l’inflazione in rapida discesa e una crisi bancaria non ancora completamente risolta, è probabile che gli Stati Uniti siano arrivati alla fine del ciclo di rialzi dei tassi d’interesse. Per i mercati finanziari si tratta diun’ottima notizia, che spiega perché l’indice S&P 500 sia vicino ai massimi dell’ultimo anno, la volatilità sia molto bassa e i titoli tecnologici (molto sensibili all’andamento dei tassi) abbiano messo a segno un forte rimbalzo dai livelli minimi.

Ma un’altra minaccia (quanto meno teorica) incombe sui mercati. Il 1° giugno scade il termine per gli Stati Uniti per aumentare il tetto dell’indebitamento federale e in assenza di questo intervento entrerebbero in default. Ma facciamo un passo indietro: nel 1917 il Congresso statunitense istituì un tetto del debito federale, che è stato via via alzato per permettere nuovo deficit. Dal 1959 il Congresso ha innalzato questo tetto 89 volte, con un’accelerazione dalla crisi finanziaria del 2008 in poi. Dopo anni di elevato deficit, il debito federale ha raggiunto il tetto che era stato elevato a 31 mila miliardi di dollari e le trattative tra il Partito democratico e quello repubblicano per incrementarlo sembrano essere in salita. Non è la prima volta che si registra uno stallo, ma questa volta sembra particolarmente difficile superarlo.

Per essere chiari, ci aspettiamo che il limite venga alzato entro la scadenza del 1° giugno. Tuttavia, occorre essere preparati per tutti gli scenari e l’evento di un default statunitense sarebbe di ampia portata: i pagamenti sul debito verrebbero congelati, così come gli stipendi dei dipendenti pubblici, la sanità e la difesa. Le agenzie di rating taglierebbero il rating e finanziarsi negli Stati Uniti diventerebbe più oneroso. La Federal Reserve (Fed) sarebbe costretta a fornire liquidità alle banche, ma una recessione sarebbe inevitabile.

Come detto, un evento altamente improbabile ma, viste le potenziali conseguenze, da non ignorare completamente. Il sistema finanziario globale è costruito dando per scontato che i Treasury statunitensi siano sicuri e un default potrebbe essere «una catastrofe economica», per usare le parole di Janet Yellen, ex Presidente della Fed e ora Segretario al Tesoro. L’azionario potrebbe perdere più del 10%, i Treasury perderebbero rapidamente valore, mentre l’oro si apprezzerebbe per via della ricerca di beni rifugio da parte degli investitori.

Dall’altra parte del mondo le cose sembrano andare meglio. La Cina continua a beneficiare delle riaperture post-COVID. Anche se la ripresa procede in modo altalenante per via della debolezza delle esportazioni verso l’Occidente, i consumi sono destinati a rimanere a un livello elevato. Il mercato cinese, però, dopo una buona partenza è tornato ai livelli d’inizio anno per via del timore che le difficili relazioni con gli Stati Uniti possano portare a un decreto che limiti gli investimenti in Cina, innescando un’ondata di vendite. Anche in questo caso si tratta di un evento poco probabile, ma date le potenziali conseguenze non lo si può ignorare.

La zona euro si colloca un po’ nel mezzo. Continua ad andare meglio del previsto, soprattutto grazie ai consumi e ai servizi, anche se i rialzi dei tassi cominciano a farsi sentire. Pesano soprattutto nel campo immobiliare nel Nord Europa dove, forse, dopo oltre un decennio di tassi bassi (e senza spread, diversamente dall’Italia) si era creata qualche bolla.

Nonostante l’inflazione stia scendendo e la politica fiscale si stia irrigidendo, cosa che contribuirà ulteriormente a contenere i prezzi, la Banca centrale europea continua a segnalare ulteriori rialzi dei tassi, che potrebbero arrivare al 4%. Il principale rischio per la nostra area economica probabilmente è proprio quello di eccessivi rialzi che possano affossare l’economia. A livello azionario, anche in considerazione delle elevate valutazioni e di probabili riduzioni del credito in seguito alle crisi bancarie, gli Stati Uniti sembrano il mercato più vulnerabile a una correzione. Vediamo più favorevolmente i mercati emergenti, che dovrebbero beneficare dei prezzi più elevati delle materie prime, di un dollaro più debole e della ripresa cinese.

In generale, però, il mercato azionario sembra scontare uno scenario diverso da quello obbligazionario: il primo sembra aspettarsi un rallentamento economico controllato e un taglio dei tassi d’interesse americani entro fine anno, il secondo invece sembra scontare una recessione. Infatti, la riduzione dell’inflazione e un rallentamento della crescita nelle economie avanzate implicano che i tassi siano vicini al picco e, quindi, che i rendimenti offerti dalle obbligazioni di buona qualità e media durata siano interessanti e possano rappresentare un cuscinetto in caso di un rallentamento economico più marcato, perché un eventuale taglio dei tassi ne aumenterebbe il valore di mercato.

Il credito più rischioso, il segmento high yield, offre rendimenti elevati ma rischi significativi in considerazione della minor liquidità e del potenziale aumento dei default. Infine, la crescita americana e il differenziale di tasso d’interesse offerto dal dollaro dovrebbero erodersi e ci aspettiamo pertanto una fase di debolezza del dollaro rispetto a valute come l’euro, il franco svizzero e lo yen. In questo contesto, nella ricerca di diversificazione c’è spazio anche per l’oro.