Tre riflessioni per l’estate: cambiamenti climatici, tassi, downgrade di Fitch sugli Usa

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Questa settimana vorrei soffermarmi su tre avvenimenti che penso meritino qualche riflessione. Non sono direttamente legati tra loro, ma in modi diversi possono influire sull’andamento dei mercati, cosa che in parte è già avvenuta. Il primo riguarda i cambiamenti climatici. Lo scorso giugno è stato il mese più caldo di sempre, con le temperature più elevate mai registrate da quando sono cominciate le rilevazioni nel 1850. La Cina ha stabilito un nuovo record con 52 gradi nella città di Turpan mentre a Laredo, in Texas, si sono superati i 37 gradi per venti giorni consecutivi. L’8 agosto verrà resa nota la temperatura relativa a luglio, che potrebbe essere addirittura superiore.

I cambiamenti climatici hanno manifestazioni evidenti anche in Italia, di recente segnata da
allagamenti e nubifragi dopo un periodo di forte siccità. Nonostante tutto ciò, la domanda di energia e le emissioni di anidride carbonica a livello globale continuano ad aumentare, dell’1% solo lo scorso anno. I combustibili fossili continuano a essere dominanti, rappresentando l’82% della produzione di energia. La domanda di petrolio e carbone, il più inquinante tra i combustibili fossili, è aumentata ulteriormente sfiorando i massimi storici (anche per via del conflitto in Ucraina e delle sanzioni nei confronti della Russia).

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Se continuiamo di questo passo, tenendo in considerazione l’aumento della popolazione mondiale, la domanda di energia potrebbe aumentare di oltre il 30% nei prossimi trent’anni. Rispetto ai piani di ridurre le emissioni nette di CO2 fino ad annullarle entro il 2050 mi sembra che siamo in alto mare. L’Europa è probabilmente leader per quanto riguarda l’efficienza energetica, ma sta investendo troppo poco. È interessante osservare come la Cina rappresenti il 40% della crescita delle rinnovabili a livello mondiale, seguita a distanza dagli Stati Uniti, che tramite l’Inflation Reduction Act (IRA) investiranno 390 miliardi di dollari nei prossimi anni in rinnovabili e elettrificazione.

Ad oggi l’Unione europea ha riproposto alcuni incentivi esistenti, ma per tenere il passo di Stati Uniti e Cina dovrebbe varare piani più corposi. Escludere dal deficit gli investimenti necessari alla transizione energetica potrebbe essere una strada, che però potrebbe creare distorsioni competitive a vantaggio dei Paesi meno indebitati. Un’altra opzione potrebbe essere quella di centralizzare gli investimenti e finanziarli congiuntamente, come avvenuto con il Recovery Fund. Sarebbe più sensato, ancorché politicamente molto più arduo.

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Da questo punto di vista, le utility e alcune società industriali potrebbero beneficiare della transizione energetica per via della maggiore domanda di energia pulita e componenti e di possibili incentivi fiscali.

Il secondo avvenimento è il cambiamento di tono, ora molto più conciliante, da parte dei Presidenti della Federal Reserve (Fed) e della Banca centrale europea (BCE). Entrambi sembrano volersi sfilare dal ruolo di «falchi» della politica monetaria che aveva caratterizzato i loro interventi negli ultimi mesi.

Si tratta di una virata condivisibile, visto che l’inflazione è in discesa e nella zona euro lo sarà ancora di più nei prossimi mesi, mentre l’economia inizia a dare segnali di debolezza. Mancano due mesi alle prossime riunioni che potrebbero portare a ulteriori modifiche dei tassi d’interesse; nel frattempo verranno pubblicati nuovi dati economici che potrebbero confermare la discesa dell’inflazione e indurre quindi a una pausa, almeno per quanto riguarda la Fed.

Il Presidente della banca centrale statunitense, Jerome Powell, ha indicato che l’istituto potrebbe tagliare i tassi anche prima che l’inflazione raggiunga il target del 2% per evitare di tenerli alti troppo a lungo, visto che l’impatto economico della politica monetaria si manifesta con alcuni mesi di ritardo. La BCE invece ha insistito sul suo approccio «data dependant», cioè prenderà le proprie decisioni in base agli ultimi dati disponibili. È un approccio comprensibile ma alcuni dati, per esempio l’inflazione «core» (cioè depurata dalle variazioni dei prezzi dell’energia), tendono a riflettere la realtà con qualche mese di ritardo. Il rischio per la zona euro è quindi di viaggiare con il pilota automatico senza anticipare le evoluzioni del contesto.

Ed ecco il terzo avvenimento: il downgrade di Fitch sugli Stati Uniti, che ha portato il rating ad AA+ da AAA e ha acceso un faro su temi in realtà già noti al mercato. L’agenzia di rating ha sottolineato alcuni problemi di governance riferiti al tema del «debt ceiling» (vale a dire il tetto all’indebitamento che viene periodicamente elevato con complesse trattative politiche), ma soprattutto l’elevato ammontare di debito, circa 1800 miliardi di dollari, che gli Stati Uniti dovranno emettere entro la fine dell’anno.

Sebbene queste informazioni non siano nuove, sono bastate per mettere fine a una serie di giornate particolarmente positive per i mercati finanziari. L’impatto sui Treasury statunitensi tutto sommato è stato contenuto, con una decina di punti base di rendimento in più sul decennale, mentre i rendimenti a breve termine sono marginalmente scesi perché il downgrade potrebbe
contribuire ad accelerare il percorso verso un taglio dei tassi, probabilmente a partire dal prossimo anno.

Il cambiamento di tono delle banche centrali, la riduzione dell’inflazione e un rallentamento della crescita nelle economie avanzate implicano che i tassi siano vicini al picco e, quindi, che i rendimenti offerti dalle obbligazioni di buona qualità e media durata siano interessanti. Le obbligazioni di buona qualità rappresentano anche un cuscinetto in caso di recessione, perché un eventuale taglio dei tassi ne aumenterebbe il valore di mercato.

Il downgrade di Fitch ha avuto un impatto maggiore sui mercati azionari, che ne hanno risentito per diversi giorni. La mia interpretazione è che questo sia dovuto soprattutto al posizionamento degli investitori precedente la notizia. Infatti, dopo un forte recupero i mercati azionari (e soprattutto quello americano, che ha valutazioni più elevate) scontano uno scenario ideale che lascia poco margine d’errore. Di pari passo la volatilità era scesa a livelli bassissimi e proprio questo fattore può aver contribuito a incrementare le valutazioni per via di alcuni automatismi del mercato.

Occorre infatti ricordare che la costruzione del mercato azionario oggi risente di alcuni elementi pro-ciclici: alcune strategie di controllo del rischio (ad esempio, risk parity) aumentano l’esposizione alle azioni quando la volatilità è bassa e lo stesso fanno molti algoritmi di natura più speculativa. Gli stessi gestori «umani» possono trovarsi in una situazione simile, perché la dimensione delle posizioni tattiche che possono essere prese viene spesso misurata in relazione alla volatilità del momento (ad esempio tramite il tracking error, che è influenzato dalla volatilità).

Se prendiamo a riferimento l’indice VIX, in seguito al downgrade di Fitch si è registrato un piccolo aumento della volatilità; se questo andamento dovesse continuare, potrebbe portare al fenomeno opposto a quanto avvenuto di recente, vale a dire la riduzione delle posizioni in azioni. Non sarebbe quindi tanto un effetto della notizia in sé, quanto della situazione precedente. In considerazione delle elevate valutazioni e di probabili riduzioni del credito in seguito alle crisi bancarie, e anche tenendo in considerazione la volatilità, gli Stati Uniti ci sembrano quindi il mercato più vulnerabile a una correzione.