Cina, il nuovo inizio

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Nelle cronache finanziarie è tornata la geopolitica.

Le crescenti tensioni tra paesi, il protezionismo e la competizione tra modelli di governo hanno intensificato le preoccupazioni sulla frammentazione economica e finanziaria globale.

Il premier cinese Xi Jinping non è andato al G20 in India. Le spiegazioni della sua assenza sono state molteplici, la più convincente è quella che rimanda alla rivalità con gli Stati Uniti, ormai apertamente dichiarata.

Xi preferisce guardare ai paesi del Sud del mondo, è stato protagonista nel vertice dei paesi “BRICS” di poche settimane fa e si riprenderà la scena nel Forum che in ottobre celebrerà a Pechino il decennale dell’avvio del progetto “Belt and Road Initiative”. Non saranno presenti leader occidentali ma ci saranno i leader della lega BRICS, propugnatori di un modello di sviluppo alternativo a quello occidentale.

I media cinesi amplificano i messaggi relativi all’Iniziativa per lo Sviluppo Globale, all’Iniziativa per la Sicurezza Globale e all’Iniziativa per la Civilizzazione Globale, più idee che veri e propri progetti ma che veicolano il potente messaggio di un modello di sviluppo presentato come superiore e migliore, per i Paesi più poveri, rispetto ai modelli occidentali.

Il “nuovo inizio” della Cina di Xi è tribolato da una economia impantanata nella peggiore crisi dal tempo dell’”altro inizio”, quello promosso da Deng Xiaoping negli anni Ottanta. La fase della crescita impetuosa è finita, al cuore della debolezza economica e finanziaria del paese c’è la grave crisi del settore immobiliare e il ricorso a politiche monetarie lasche è frenato dall’aumento dei tassi negli Stati Uniti, pena l’ulteriore indebolimento del renmimbi e la fuga dei capitali.

E se in Europa e negli Stati Uniti l’inflazione fa ancora male, la Cina è alle prese con il problema opposto, gli alti livelli di debito e i prezzi in calo fanno balenare la prospettiva della deflazione. La riduzione della domanda porta alla riduzione degli investimenti, della produzione, del reddito e quindi della domanda, un circolo vizioso da quale si può uscire con stimoli massicci alla domanda aggregata.

Nell’immediato futuro la sfida che attende il governo di Pechino è duplice: la sfida interna è guidare l’economia attraverso un passaggio epocale che temperi l’invecchiamento della popolazione e che stimoli i consumi, ancora al di sotto dei livelli prepandemici. La sfida esterna è governare le relazioni con gli Stati Uniti, il contributo delle esportazioni alla crescita potrebbe ulteriormente diminuire e raffreddare la già tiepida fiducia degli investitori istituzionali.

Per il saggista Philip Coggan, le dinamiche della geopolitica si intersecano pericolosamente con altre questioni sensibili, ad esempio la trasformazione energetica, l’invecchiamento della popolazione, i livelli del debito, l’inflazione.

Le intersezioni della geopolitica con la transizione energetica portano in primo piano ancora le relazioni tra Stati Uniti e Cina. Sono cinesi le due aziende che riforniscono il mondo di più della metà delle batterie necessarie alle auto elettriche, la quota cinese della produzione di pannelli solari è alla ragguardevole quota di 80%.

Si pensi, inoltre, alla questione Taiwan. Oggi nell’isola contesa si concentra la produzione di oltre il 60% dei semiconduttori mondiali e oltre il 90% di quelli più avanzati.

Queste competenze produttive fanno della tecnologia uno “scudo di silicio”, un formidabile motivo per difendere l’isola dall’espansionismo cinese. Ma, d’altro canto, la dipendenza dalla produzione di Taiwan è anche ragione di debolezza: parte della produzione sta prendendo la via dell’estero. L’industria dei chip era nata sul modello della produzione “just in time”, catene della produzione efficienti, mano d’opera altamente qualificata, standard logistici all’avanguardia. Un modello non facilmente replicabile nei nuovi assetti di “on-shoring” o “friendly-shoring”, il costo della produzione dei microchip negli stabilimenti inaugurati in Arizona è stimato più alto del 55%.

La geopolitica e le condizioni dell’economia cinese hanno ricadute anche sulle prospettive dell’inflazione. Storicamente, le fasi di globalizzazione sono deflazionistiche, i beni a basso costo prodotti in Cina e nei paesi asiatici negli ultimi decenni hanno avuto un ruolo importante nel tenere bassa l’inflazione, la diffidenza tra paesi e aree di influenza aumenta la possibilità che l’inflazione sorprenda al rialzo.

Non manca qualche nota positiva.

In agosto l’indice dei prezzi al consumo è aumentato dello 0,1% su base annua, al di sotto delle stime ma tornato in territorio positivo dopo il -0,3% di luglio; l’indice dei prezzi alla produzione è ancora negativo, a conferma delle difficoltà della manifattura, ma il calo è meno pronunciato rispetto a un mese fa (-3% contro -4,4%).

La ripartenza dell’economia cinese passa dalla restituzione della fiducia alle famiglie e agli investitori, il nuovo inizio della Cina riguarda tutto il mondo.