GAM: La “città di vetro” dei mercati finanziari

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“Molto tempo dopo … avrebbe concluso che nulla era reale tranne il caso”.

Sono le prime parole di Città di vetro, il romanzo che apre la Trilogia di New York di Paul Auster. La città dei tre romanzi è un luogo surreale in cui “tutto si confonde e sfuma”, i suoi protagonisti vivono storie intricate.

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Non mancano le sorprese e gli attraversamenti dei piani narrativi nella “città di vetro” dei mercati finanziari, le vicende dell’economia raccontano una storia e storie diverse si sviluppano nelle borse che, ad oggi, continuano a scalare il proverbiale muro delle preoccupazioni.

Il rally è cominciato nell’ottobre 2022, da allora lo S&P 500 è cresciuto di circa il 40%, ha proseguito quest’anno con un incremento di oltre il 10% nel primo trimestre, le azioni globali hanno fatto poco meno. I listini sembrano mitridatizzati ai tassi di interesse americani al 5,25% e a valutazioni così tirate che lo stesso Warren Buffett tiene fermi in liquidità circa 189 miliardi di dollari perché pensa che “manchino opportunità di investimento”.

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I mercati hanno preso una pausa in aprile. Torna la voglia di crescere in questi primi giorni di maggio, il rapporto sull’occupazione negli Stati Uniti ha dato vento alle vele dei listini.

I nuovi posti di lavoro non agricoli sono stati 175.000, molto meno dei 240.000 attesi. Il tasso di disoccupazione è salito al 3,9% contro le previsioni di una sua tenuta al 3,8%, sono diminuite la media delle ore lavorate settimanali e la crescita delle paghe orarie. Insomma, un raffreddamento dell’occupazione che i mercati azionari hanno immediatamente interpretato come il presupposto per il rallentamento dell’inflazione e premessa per l’avvio del ciclo di allentamento monetario.

Il dato del lavoro attutisce la diffidenza verso il tono accomodante di Jay Powell: i dati contano sempre più delle parole, saranno le prossime rilevazioni del movimento dei prezzi a orientare il mercato. È rallentata la crescita dell’occupazione nel settore del tempo libero, i tassi alti si fanno sentire sui servizi e sulle piccole imprese: se dopo un dato sull’occupazione così debole l’inflazione dovesse rivelarsi ostinata prenderebbe maggior consistenza l’idea della stagflazione (con effetti ribassisti), se invece i dati sull’inflazione saranno più deboli, in coerenza con i più deboli dati del lavoro, conserverebbe forza l’ipotesi del soft landing (dagli effetti rialzisti).

La parte difficile del lavoro dei banchieri centrali è la gestione del tempo o, meglio, la gestione dell’intervallo di tempo che trascorre tra il momento dell’azione di politica monetaria e quello nel quale i suoi effetti si trasmettono al sistema economico. Nel recente passato non sono mancati gli errori benché vadano riconosciute ai banchieri centrali le circostanze attenuanti: i forti shock dell’offerta si sono verificati in una fase di strutturale riorganizzazione delle catene della fornitura e di forte diminuzione del grado di apertura negli scambi globali. In un primo momento è stata sottovalutata la natura dell’inflazione, poi c’è stata la folle rincorsa, i tassi sono stati aumentati a una velocità mai vista neppure negli anni di Volcker. “Calibrare gli interventi in tempo reale è stata una vera sfida” ricorda Fabio Panetta “non è mai facile distinguere tra shock della domanda e shock dell’offerta”.

La settimana scorsa la Federal Reserve, come ampiamente atteso, ha mantenuto fermi i tassi, i membri del Comitato hanno ritenuto che non fosse ancora arrivato il momento di ridurli, il presidente Jerome Powell ha ribadito che la posizione della Fed è coerente con la forza dell’economia americana, “noi abbiamo il lusso di avere una forte crescita e un forte mercato del lavoro, una disoccupazione molto bassa, un’elevata creazione di posti di lavoro e tutto il resto” e ha poi aggiunto di ritenere “improbabile” che la prossima mossa della Fed sia un rialzo, ipotesi avanzata da Larry Summers.

Il Comitato ha comunque deciso di rallentare, da giugno, il ritmo della diminuzione del bilancio, una misura di leggero allentamento monetario. Il “quantitative tightening” avviato nel giugno 2022 è stato il primo strumento per inasprire le condizioni finanziarie. Con la diminuzione di 95 miliardi di dollari al mese il bilancio della banca centrale è sceso di circa 1,5 trilioni di dollari rispetto al picco di metà 2022, la decisione di rallentare porta ora il ritmo mensile a 25 miliardi, un segnale al mercato ma soprattutto un aiuto all’impegnativo programma di massive nuove emissioni del Tesoro.

All’interno del Comitato, alcuni membri sono preoccupati delle conseguenze che potrebbero scaturire dal mantenere troppo a lungo i tassi ai massimi di due decenni; ne potrebbero risentire le banche regionali, il mercato immobiliare e tutti quei settori e attività che negli anni precedenti hanno prosperato soprattutto per le condizioni finanziarie estremamente favorevoli.

Altri membri del FOMC, invece, non ritengono una priorità il taglio dei tassi. Dopotutto, l’economia americana si sta dimostrando resiliente all’aggressivo aumento dei tassi.

Le previsioni sull’inflazione sono il perno della politica monetaria e, nonostante l’esperienza della fragilità degli esercizi previsivi, i pronostici sui tassi restano un potente strumento di comunicazione della Federal Reserve, il suo grafico a pallini ne è l’esempio preclaro, centrale nella comunicazione della banca e nei commenti degli analisti.

La questione è rilevante, l’economia globale e la politica monetaria si trovano in un passaggio critico, strette tra una inedita instabilità politica e le minacce del protezionismo e della frammentazione degli scambi. Il giudizio dei banchieri centrali sull’adeguatezza delle loro decisioni avrà forti implicazioni sull’economia e sull’andamento dei mercati finanziari. Il meccanismo della trasmissione monetaria resta la variabile più importante perché è qui che si concentra il rischio di danneggiare l’attività economica anziché aiutarla.