Eurozona alla ricerca di stabilità: tra possibili dazi USA e pressioni inflazionistiche

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Riteniamo che un aumento dei dazi del 10% su tutte le importazioni statunitensi sarebbe gestibile per il resto del mondo, a patto che si permetta alla politica monetaria di svolgere il suo ruolo di stabilizzazione. In linea di principio, un’aliquota uniforme del 10% non colpirebbe nessun esportatore più di altri – ci si dovrebbe preoccupare solo della concorrenza dei produttori statunitensi, che potrebbe essere almeno parzialmente riequilibrata dal riassetto dei cambi, che deriverebbe naturalmente da una Fed più falco in concomitanza con un atteggiamento più accomodante delle altre banche centrali. Dal recente picco di quest’estate a 1,1192, l’euro ha già perso il 4,2% rispetto al dollaro.

Affinché il deprezzamento continui, la Banca centrale europea (Bce) deve essere in grado di divergere ulteriormente dalla Fed e questo dipenderà dalla fiducia del Consiglio direttivo nel fatto che l’inflazione possa continuare a convergere in modo tempestivo verso il target.

Riteniamo abbastanza rassicurante che il Consiglio direttivo abbia deciso all’unanimità di procedere con un taglio consecutivo a ottobre, suggerendo che anche i membri più falchi stiano rivedendo le proprie prospettive macroeconomiche. Tuttavia, in vista della riunione di dicembre, sarà ovviamente cruciale seguire l’andamento dei dati. La stima di crescita del PIL più forte del previsto per il 3° trimestre (+0,4% trimestrale, 1,6% annualizzato) non è stata, a nostro avviso, decisiva di per sé, vista l’eccezionale spinta dalla Francia grazie alle Olimpiadi e un ulteriore dato irlandese fuori scala. Al netto di questi due fattori, la crescita del PIL si è avvicinata all’1% annualizzato, appena in linea con il potenziale.

Il dato sull’inflazione di ottobre è stato in qualche modo deludente: l’Indice dei prezzi al consumo (CPI) core, contrariamente alle aspettative, non è riuscito a decelerare ulteriormente rispetto a settembre, rimanendo al 2,7% a/a. È sempre stato chiaro che la strada verso la disinflazione sarebbe stata accidentata, e non dovremmo sopravvalutare l’importanza di un mese di dati. Tuttavia, mentre alla fine di ottobre, il mercato stimava una probabilità del 40% di un taglio di 50 pb, piuttosto che di 25 pb, in occasione della riunione di dicembre, il recente flusso di dati ha cambiato il quadro. Un taglio di 25 pb è anche la nostra ipotesi di base, ma continuiamo a ritenere che un taglio più consistente potrebbe ancora essere possibile nei prossimi mesi, se i dati sull’inflazione torneranno in modo convincente sul percorso di decelerazione.

In ogni caso, la posta in gioco alla riunione di dicembre, a nostro avviso, non è tanto l’ammontare del taglio, quanto la determinazione della Bce a seguire una traiettoria di rimozione delle restrizioni che riporti le condizioni monetarie alla neutralità. Sarebbe pericoloso non agire preventivamente in questo caso. Aspettare le effettive decisioni di Washington sui dazi sui prodotti europei e cinesi prima di reagire potrebbe mantenere le condizioni finanziarie in Europa eccessivamente restrittive. In effetti, la sola minaccia di un’altra guerra commerciale potrebbe essere sufficiente a innescare un atteggiamento di attesa nel settore corporate europeo, incerto ad esempio su come l’economia cinese potrebbe sostenere un aumento dei dazi pari al 60%.

Inoltre, continuiamo a pensare che la Bce non possa ignorare il fatto che la politica fiscale non è in grado di fornire una protezione significativa nell’eurozona in questo momento. Il fatto che la coalizione tedesca sia crollata un giorno dopo elezioni statunitensi che hanno portato alla prossima Amministrazione il probabile pieno controllo del Congresso è un’altra chiara manifestazione dello spirito del tempo. Ora abbiamo le due maggiori economie dell’Ue che operano con governi di minoranza, con un percorso poco chiaro per la finalizzazione della legge di bilancio.

C’è stato un breve momento di positività nel mercato, dato che l’esclusione dei Free Democrats, conservatori dal punto di vista fiscale, è stata interpretata come la promessa di una politica di bilancio più attiva. Ciò era stato alimentato anche dall’annuncio di Scholz di aver proposto un’altra sospensione del “freno al debito” per il 2025. Tuttavia, allo stato attuale delle cose, non è chiaro se il Cancelliere possa trovare una maggioranza a sostegno di questa mossa, e l’entità della revisione dell’impulso fiscale 2025 data da questa mossa è anch’essa poco chiara.

Inoltre, non è affatto certo che le elezioni – probabilmente fissate per fine marzo (al momento in cui scriviamo, questa rimane la tempistica preferita da Scholz, nonostante le pressioni dell’opposizione per un’accelerazione) – chiariranno necessariamente la posizione fiscale della Germania. Per andare oltre la sospensione, che richiede solo una maggioranza semplice, l’eliminazione totale della regola costituzionale del Freno al Debito, o almeno una sua riforma sostanziale, richiede una maggioranza di due terzi in entrambe le Camere del Parlamento. Secondo gli ultimi sondaggi, i partiti populisti di destra e di sinistra attirano ora più di un quarto dell’elettorato, e la posizione ufficiale della CDU-CSU, probabile vincitrice delle elezioni generali, è tuttora quella di sostenere il Freno al Debito. In ogni caso, i sondaggi suggeriscono che dopo le elezioni sarà necessario formare un’altra coalizione bi- o tri-partitica, che (i) ritarderà ulteriormente il chiarimento e (ii) renderà difficili i negoziati sulla posizione fiscale. Sebbene si possa “intuire” che il dibattito macroeconomico stia evolvendo nei circoli politici tedeschi, non riteniamo realistico attendersi un rapido sostegno fiscale dalla maggiore economia dell’area euro per arginare un ulteriore deterioramento della fiducia delle imprese.