Il termometro dell’output gap, vale ancora?

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Il pacchetto di stimoli della Casa Bianca punta ad assegnare nuovamente alla classe media un ruolo centrale nell’economia statunitense, dopo l’impatto della globalizzazione negli ultimi decenni che ne ha peggiorato la situazione, aggravata poi ulteriormente dagli effetti della pandemia. Questo programma dovrebbe essere utilizzato per sostenere l’intera popolazione, quindi è preferibile pecchi per troppa ampiezza che per il contrario. Tutti ricorderanno come il pacchetto di salvataggio del 2009 venne giudicato troppo limitato e come non riuscì a riportare l’economia sulla sua traiettoria pre-crisi.Tuttavia, tale programma potrebbe rapidamente alimentare tensioni sul sistema produttivo e rischiare di spingere una ripresa dell’inflazione, costringendo la Fed a reagire all’escalation dei prezzi. Il surriscaldamento dell’economia può essere misurato dalla differenza tra il Pil a fine 2020 e il Pil medio del 2019. La differenza arriva a -1,6% se guardiamo al PIL reale, mentre il differenziale è leggermente positivo (0,25%) sul PIL nominale. Le dimensioni faraoniche del piano Biden potrebbero sostenere la domanda, che a sua volta potrebbe portare ad ulteriori tensioni alimentando il rischio inflazionistico.

È interessante sottolineare due aspetti:

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  • In primo luogo, la disoccupazione è scesa dal 10% fino al 3,5% dalla crisi finanziaria del 2009, pur non riuscendo a innescare una pressione inflazionistica. La capacità dell’economia statunitense di generare inflazione sembra debole nel breve termine, tuttavia il tasso di disoccupazione del 3,5% è ben lontano dal tasso di disoccupazione di equilibrio, che spesso viene riconosciuto intorno al 5%.
  • La seconda questione riguarda l’output gap. Il Congressional Budget Office (CBO) ha delineato i trend in termini di PIL potenziale degli Stati Uniti ed è subito emerso come potrebbe rapidamente tornare al proprio ritmo, con il pacchetto Biden pronto ad accelerarne ulteriormente la corsa. Le stime del PIL potenziale sembrano più volatili del PIL stesso, e notiamo che dopo la crisi del 2009, le proiezioni erano molto alte rispetto alle performance registrare nei fatti.

L’output gap – il divario tra il PIL potenziale e il PIL effettivamente osservato – è un concetto rassicurante, ma potrebbe avere quel grado di importanza sperato, in particolare perché la crisi legata alla pandemia ha costretto a ripensare la struttura delle nostre economie, con una serie di settori non più in grado di operare come prima. La Fed non sembra avere fretta, soprattutto perché la Banca centrale giudica il mercato del lavoro disomogeneo: i lavoratori qualificati si sono ripresi dallo shock del mercato del lavoro parecchio tempo fa, ma la crisi continua a creare impatti negativi per i lavoratori meno qualificati. Ciò è coerente con qualche recente stima secondo cui i numeri sul tasso di disoccupazione si attestano ad una soglia più vicina al 10% che alla cifra ufficiale del 6,3%. La Fed ha messo in chiaro di essere pronta ad adottare misure importanti per rimettere in piedi l’economia statunitense, anche se questo potrebbe innescare un leggero aumento dell’inflazione. Tuttavia, ciò non rappresenta una fonte di preoccupazione per la Fed, dato che gli obiettivi di inflazione sono passati un po’ in secondo piano nell’intento di reagire della Banca centrale. L’inflazione può ora collocarsi sopra il 2% per un dato periodo di tempo, senza che la Fed debba restringere la propria politica monetaria, e la Banca non interverrà in maniera evidente nel caso in cui l’inflazione salga sopra il normale.

La situazione negli Stati Uniti è cambiata. Il pacchetto di stimoli farà aumentare il ritmo della crescita e accelererà la convergenza verso i livelli pre-pandemici. Nel frattempo, i prezzi del Brent rimarranno elevati a causa dei cambiamenti fondamentali sul mercato del petrolio, determinati dalle decisioni della Casa Bianca in materia estrattiva. Ciò rappresenta un cambiamento strutturale sul mercato, dato che effettuare trivellazioni petrolifere negli Stati Uniti non sarà così semplice come lo era durante la precedente amministrazione. Il calo della produzione di petrolio dal marzo dello scorso anno potrebbe non invertire la marcia così rapidamente come ci si aspettava, portando di conseguenza ad un cambiamento a lungo termine nell’equilibrio del mercato. La combinazione di questi due fattori – crescita e prezzi del petrolio – si tradurrà in tassi più alti negli Stati Uniti, anche se la Fed continuerà ad agire sia ora che nei prossimi anni. Il punto più basso per i tassi statunitensi è ormai alle spalle.

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