Pensioni flessibili: 2 milioni i potenziali interessati

di redazione - redazione@lamiaprevidenza.it -

Sono gli occupati tra i 58 e i 63 anni. Secondo l’Istat, inoltre, una donna su due ha un assegno inferiore ai mille euro al mese, contro un terzo degli uomini

Sono 2 milioni, due terzi dei quali uomini, gli occupati tra i 58 e i 63 anni, potenzialmente interessati alle misure di flessibilità in uscita dal lavoro sulle quali sta lavorando il Governo. Il dato è stato fornito dall’Istat, nel corso di un’audizione alla commissione Lavoro della Camera. L’Istat aggiunge che in questa fascia d’età è aumentato il numero dei disoccupati, che oggi sono 111 mila, e sono passati dal 3% del 2008 al 5,3% del 2015.

L’ufficio di statistica ha inoltre confermato i dati sulla esiguità delle rendite percepite dalle donne: nel 2014 oltre metà delle pensionate (il 52,8%) aveva redditi da pensione inferiori a mille euro lordi al mese. Tra gli uomini solo un terzo ha una pensione inferiore a quella soglia. Il 15,3% delle pensionate inoltre ha redditi inferiori a 500 euro. Per contro, solo il 10,2% delle pensionate percepisce un reddito da pensione superiore a 2 mila euro contro il 23,9% dei pensionati uomini. Le donne sono la maggioranza dei pensionati (il 52,9%) ma percepiscono un importo medio mensile di 1.095 euro contro i 1.549 degli uomini.

Tra i motivi per cui le pensioni delle donne sono più bassi (oltre alla differenza salariale con gli uomini) vi sono carriere lavorative più discontinue, e più spesso caratterizzate da lavori atipici, e un maggiore ricorso al part time.

Il 30% delle donne occupate ha lasciato il lavoro dopo il primo figlio, dice l’Istat. Il tasso di abbandono del lavoro per le donne nate dopo il 1964 è al 25%. Tra il 2005 e il 2012 poi la crisi si è fatta sentire e il tasso di abbandono è passato dal 18,4% al 22,3%.

Tra gli occupati di età compresa tra i 16 e i 64 anni nel 2009, solo il 61,5% delle donne ha avuto un percorso interamente “standard”, contro il 69,1% degli uomini. Il part-time femminile è salito dal 21% del 1993 al 32,2% del 2014, con conseguenti minori livelli medi di retribuzione e importi più bassi dei contributi versati. Infine la quota delle lavoratrici irregolari è superiore a quella maschile, con un valore pari all’11,1% contro l’8,9% (media triennio 2010-2012).

Le donne sono penalizzate da “un’elevata asimmetria dei ruoli nella coppia (il 72% delle ore di lavoro di cura della coppia con figli sono svolte dalle donne), da una bassa offerta dei servizi per l’infanzia e una crescente difficoltà di conciliazione, soprattutto per le neomadri (dal 38,6% del 2005 al 42,7% del 2012)”, spiega l’Istat. Che avverte: “I differenziali di genere nelle pensioni non verranno colmati fintanto che non saranno superate le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro, nell’organizzazione dei tempi di vita, e non sarà disponibile una rete adeguata di servizi sociali per l’infanzia”’.

Nel corso dell’audizione l’istituto di statistica ha sottolineato infine come l’aumento dell’età necessaria per la pensione di vecchiaia abbia determinato un aumento importante dell’anzianità contributiva dei neo-pensionati. Nel secondo trimestre 2015, infatti, oltre la metà (il 52,7%) delle persone andate in pensione aveva versato contributi per più di 40 anni: soltanto dieci anni fa, nel 2005, tale percentuale era di appena il 10,6%. L’aumento è stato maggiore fra le donne: nel 2015 sono il 54,8% quelle che vanno in pensione con almeno 40 anni di contributi, contro il 7% del 2005.

La percentuale di quanti sono andati in pensione con meno di 30 anni di contributi, per contro, è scesa al 7%, dal 17,2% del 2005.