Francia e Regno Unito: in Europa è stagione di elezioni

Christopher Dembik -

Dopo una corsa anche più serrata del previsto in occasione delle elezioni anticipate nel Regno Unito fissate per l’8 giugno, il Partito Conservatore dovrebbe rimanere al potere ma dovrà gestire gli effetti economici nocivi di una Brexit sempre più al centro dell’attenzione.

L’ottimismo raggiunto dopo la vittoria in Francia di Emmanuel Macron nasconde il crescente timore di una parte della popolazione rispetto a una possibile vittoria del Front National nel 2022, nel caso in cui l’attuale governo non dovesse rivelarsi all’altezza delle aspettative. Questa paura potrebbe sostenere un voto strategico nelle elezioni generali dell’11 e del 18 giugno, al fine di permettere al governo di ottenere la maggioranza assoluta necessaria per realizzare le riforme.

IL CANTO DEL CIGNO INGLESE

La perfetta tempistica dei Conservatori

Le elezioni generali in UK fissate per l’otto giugno cadono nel momento migliore per i Conservatori, poichè gli effetti economici negativi della Brexit non sono ancora così evidenti. Anticipando le elezioni di tre anni (erano infatti previste nel 2020), Theresa May ha preso due piccioni con una fava: otterrà il sostegno dei Democratici necessario per le negoziazioni con l’Unione Europea a, allo stesso tempo, avrà cinque anni di tempo (fino al 2022) per gestire la tempesta economica che inevitabilmente investirà il Paese d’Oltremanica in seguito alla decisione di lasciare l’Europa. Nel momento in cui la May ha indetto le elezioni, i sondaggi la davano nettamente vincente. Ma gli scenari, in politica, possono cambiare molto velocemente. E i sondaggi più recenti, per quello che possono valere, mostrano che i Laburisti stanno accorciando le distanze. Addirittura YouGov arriva a predire che i Conservatori potrebbero perdere la maggioranza ottenuta con 330 seggi nel 2015, e ciò provocherebbe una immediata spinta verso il basso per il GBP per la paura di un Parlamento senza una maggioranza e di una conseguente problematica formazione del governo. Dal nostro punto di vista questo scenario è sicuramente suggestivo. Anche troppo, dal momento in cui le metodologie di YouGov sono alquanto controverse e la stessa società di ricerca si trincera dietro “la possibilità di un ampio margine di errore”. Concretamente, ciò significa che queste previsioni hanno un’affidabilità prossima allo zero. Per ora, l’ampia maggioranza degli istituti di ricerca dà i Tories in netto vantaggio. Se necessario, il partito potrebbe siglare un accordo di coalizione con i Liberali Democratici, come è accaduto dopo le elezioni del 2010, a condizione che questi ultimi accettino le posizioni sui migranti (i Liberali Democratici sono favorevoli a un’immigrazione composta da lavoratori qualificati mentre l’obiettivo dei Conservatori è ridurre i flussi netti di immigrazione fino a 10mila persone in meno ogni anno). In sintesi: la corsa elettorale sarà anche più serrata del previsto, ma è ampiamente prevedibile che i Conservatori rimarranno al potere. L’aspetto che più colpisce di questa tornata elettorale è che il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, che è sceso in campo per la Brexit, nelle intenzioni di voto sta perdendo circa il 3%. I principali partiti quindi avranno la responsabilità di gestire la transizione, pur non avendola mai davvero supportata apertamente. Ed è un paradosso.

…e adesso comincia la parte più dura.

L’effetto immediato e più evidente della Brexit è la svalutazione della sterlina. Considerando una parità di potere d’acquisto, la valuta inglese è sottovalutata in misura di circa il 15 % nei confronti del dollaro USA

Nel corso degli ultimi novant’anni la svalutazione è stata uno strumento fondamentale nell’economia inglese, ma non è mai stato in grado di risolvere problemi sul lungo periodo. Il motivo? Non è la soluzione, dal momento che l’elasticità del prezzo della domanda dell’export è bassa. Di conseguenza, una flessione dell’1% dei prezzi relativi delle merci genera un incremento di appena 0,41 punti percentuali nell’export dopo nove trimestri (secondo l’Office for National Statistics). In Francia un’uguale flessione genera un incremento dell’export intorno allo 0,8%

Inoltre, la svalutazione porta a un incremento dell’inflazione dell’import. Fino all’inizio dell’anno, l’incremento dell’inflazione (con un indice dei prezzi al consumo salito a quota 2,6% rispetto allo 0,3% prima del referendum) è stato ampiamente compensato da una crescita delle retribuzioni, ma, secondo i sondaggi svolti presso gli imprenditori, è difficile che questo meccanismo possa resistere nei prossimi mesi. Date le incertezze di crescita in relazione alle negoziazioni tra Londra e Bruxelles, un periodo di moderazione salariale sta per cominciare.

Nel corso degli ultimi trimestri, i consumi delle famiglie sono stati il principale fattore positivo per la crescita del PIL. Nel Q1 2016 e nel Q3 2016 ciò è particolarmente evidente nella limitazione degli effetti negativi provocati dal segno meno sugli investimenti fissi lordi. Comunque, un tasso di inflazione più elevato coniugato con la moderazione salariale provocherà una caduta del potere d’acquisto e, di conseguenza, dei consumi. L’economia inglese, che ha registrato la crescita più debole (anche peggiore di quella italiana) tra i G7 nel primo trimestre 2017, subirà un ulteriore rallentamento per il resto dell’anno. Dopo aver votato la Brexit, il Regno Unito deve attendersi un difficile ritorno alla realtà sia nel breve, sia nel medio periodo, almeno per quanto riguarda l’economia.

LA FRANCIA E LA SPERANZA DI UN’ETÁ DELL’ORO

Sull’altra sponda della Manica, un certo gioioso ottimismo si sta diffondendo in seguito alle elezioni di Emmanuel Macron. E’ come se tutto fosse cambiato da un giorno all’altro. In realtà, l’economia francese se la sta passando bene. Ma dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare: la crescita economica è in gran parte dovuta alle manovre intraprese nel corso degli ultimi tre anni dal precedente governo.

Alle elezioni generali ci aspettiamo una vittoria schiacciante di Macron

Il prossimo cruciale gradino che deve affrontare il nuovo inquilino dell’Eliseo sono le elezioni generali fissate per l’11 e il 18 giugno. Tutti i sondaggi danno En Marche, il partito del presidente, in grado di ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento (almeno 289 seggi) e vi sono quattro elementi in favore di questa tesi.

  1. Da quando è stato introdotto il mandato quinquennale per il presidente, nel 2002, i francesi sono sempre stati coerenti nel dare al Presidente della Repubblica una maggioranza parlamentare che gli permettesse di realizzare il proprio manifesto elettorale.
  2. Emmanuel Macron e il suo governo possono contare sull’appoggio potenziale sui parlamentari “amichevoli” che non appartengono al suo partito, specialmente i socialisti ma anche i membri del centro-destra UDI o i precedenti alleati di Alain Juppé. Questo è il motivo per cui En Marche non ha presentato alcun candidato in 56 circoscrizioni.
  3. Un profondo cambiamento politico è in corso. I cinque anni di Hollande hanno distrutto la base elettorale dei socialisti, che nel 2012 era molto forte. Emmanuel Macron deve il suo successo all’essersi infiltrato tra i repubblicani di Sarkozy (il più importante partito di destra) dando alle figure storiche della formazione posizioni chiave come quella di Primo Ministro a Edouard Philippe. Il nuovo Presidente potrebbe quindi replicare l’exploit del Generale De Gaulle, creando un’ampia formazione di centro con posizioni liberali per quanto riguarda l’economia.
  4. Una grande fetta di elettori teme che il Front National possa vincere le presidenziali del 2022 se l’attuale Governo non dovesse farcela a dare una risposta ai problemi della Francia. Questa paura è in gran parte irrazionale, ma potrebbe spingere al voto strategico che automaticamente favorirebbe il candidato di En Marche.

Le priorità economiche del nuovo governo

  1. La ripresa economica è effettivamente in corso, anche se in qualche modo sembra un po’ “artefatta”. Gli investimenti nel corso del Q1 2017 hanno tenuto e stiamo assistendo a un’accelerazione nella crescita del mercato del lavoro, perlopiù grazie alle manovre messe in atto negli ultimi anni. In ogni caso il riporto alla fine del Q1 2017 (0,7%) è ancora troppo basso per permettere alla Francia di raggiungere le proiezioni di crescita all’1,5% fissate dal governo precedente
  2. La decisione di ridurre il costo del lavoro negli ultimi anni per le fasce di reddito più basse attraverso iI credito d’imposta (CICE) e l’Impiego ha rilanciato la competitività delle aziende francesi. Tuttavia il piano non è perfetto. Va, infatti, a beneficiare maggiormente alcuni settori non esposti alla concorrenza internazionale, come i grandi operatori del commercio al dettaglio. Inoltre, questa manovra non è stata accompagnata da un’ambiziosa strategia di sviluppo. Troppo spesso, infatti, dimentichiamo che il successo economico della Germania non è solo dovuto all’abbassamento del costo del lavoro nel settore dei servizi, con le relative ripercussioni positive sugli esportatori, ma anche al miglioramento della competitività produttiva del settore industriale.
  3. L’economia francese è basata su un mercato del lavoro a due velocità che avvantaggia i lavoratori diplomati o laureati (che conoscono come funziona il sistema) a spese di chi guadagna salari bassi, magari con una vita professionale all’insegna del precariato o con periodi più o meno lunghi di disoccupazione. Nonostante quello che si può pensare, la disoccupazione di massa in Francia non esiste. Ma solo perché affligge i lavoratori non qualificati. Il tasso di disoccupazione per chi abbia tre o quattro anni di istruzione superiore è intorno al 5%, confermando così che il “pezzo di carta” è ancora la migliore tutela contro la precarietà.

Una ricetta magica per la riforma dell’economia francese non esiste. Alla fine, tutto è già stato detto o scritto. E non si tratta di scegliere le giuste manovre. Si tratta di trovare il giusto metodo per realizzarle. Le riforme del mercato del lavoro che il governo vuole conseguire nel corso dell’estate sono basate sull’utilizzo di decreti governativi. In effetti, attraverso un decreto, il Parlamento trasferisce momentaneamente il potere legislativo al governo. Questo modo di legiferare fa risparmiare tempo ed è più efficiente (se non altro perché evita l’estenuante avanti e indietro di una legge da una Camera all’altra) ed è stato utilizzato con successo per la grande riforma delle pensioni del 1993, che ha esteso il periodo di contribuzione obbligatoria dei lavoratori per la piena pensione a 40 anni. In ogni caso, legiferare attraverso decreti non è un lasciapassare per aggirare una rivolta sindacale, evento alquanto comune in Francia. Per evitare ciò, il governo potrebbe decidere di applicare la “clausola del nonno” (ovvero quel provvedimento che permetteva agli schiavi neri in USA di votare solo in caso avessero avuto il nonno elettore, ovvero nessuno) per riformare il mercato del lavoro. Ciò significa che i cambiamenti decisi verrebbero applicati solo ai nuovi lavoratori, a partire da una data definita e non riguarderebbe i lavoratori da più vecchia data. Il vantaggio è ovvio: i neolavoratori non hanno alcun modo di unire le forze in dimostrazioni, mentre i sindacati, che tendono maggiormente a difendere i diritti della forza lavoro attiva, manterrebbero i loro privilegi. Respingendo le riforme in tempo il governo potrebbe garantirne l’applicazione e, in ultima analisi, l’efficacia.

Per quanto riguarda le riforme di lungo periodo la sfida reale della Francia non è legata alla competitività, ma alla produttività. Il declino della produttività del lavoro sta pesando in modo consistente sulla crescita potenziale del PIL e sul tenore di vita. Un modo per stimolare la produttività è promuovere su larga scala una formazione e un’educazione professionale. La Francia devolve circa 32 miliardi di Euro all’anno a questo scopo. Quindi la questione non è il reperimento delle risorse, ma la loro allocazione. E’ necessario concentrarsi sulle nuove tecnologie ma non dimenticare il tradizionale settore industriale, dove la manodopera scarseggia. Secondo il MEDEF, l’associazione industriale francese, un terzo dei produttori segnala questo problema. Infine la formazione professionale per i disoccupati ha bisogno di essere decentralizzata e affidata alle regioni che sono maggiormente in grado di comprendere i bisogni delle imprese a livello locale.


Christopher Dembik – Head of Macro Analysis – Saxo Bank