Fine del QE? Avanti adagio

Andrea Delitala -

Mario Draghi ha frenato gli acquisti, che proseguiranno per almeno 9 mesi in maniera moderata (30 miliardi al mese, rispetto agli attuali 60), mentre il reinvestimento dei titoli in scadenza si protrarrà per un periodo ancora maggiore.

La “Forward Guidance”, ossia la dichiarazione d’intenti sul sentiero futuro dei tassi lascia intendere che il primo rialzo dei tassi difficilmente arriverà prima del 2019. Nonostante il quadro di crescita sia convincente, restano dubbi sui progressi sul fronte inflazionistico. Il ritorno verso l’obiettivo del 2% dipende in maniera sostanziale dall’allentamento monetario: l’inizio della stretta è pertanto allontanato a data da destinarsi. Il mercato ha accolto con un moderato ottimismo questo insieme di decisioni, leggermente più accomodanti rispetto alle attese. La conseguenza è stata un lieve indebolimento dell’Euro (fino a 1,1740), una discreta fine di sessione per le azioni e soprattutto un ottimo comportamento delle obbligazioni.

Tuttavia, al di là dei dettagli, siamo al giro di boa della politica monetaria. Le circostanze eccezionali che avevano caratterizzato la grande recessione di origine finanziaria avevano reso indispensabile l’attivazione di politiche monetarie straordinarie, sia per gli Usa sia per l’Europa: ora l’emergenza è conclusa e il cortisone della liquidità non ha più necessità di essere somministrato.

Resta il grande mistero dell’inflazione, come l’ha definito anche il presidente della Fed Janet Yellen. A fronte di un mercato del lavoro vicino al pieno impiego, c’è tepore sui salari, controcorrente rispetto a quanto suggerirebbe la curva di Phillips. Potrebbe trattarsi solo di un vuoto d’aria, di un intoppo di tipo ciclico (che è la tesi della Fed), ma potrebbe essere anche un problema strutturale dovuto allo shock tecnologico e all’andamento della curva demografica.

Nel modus operandi delle banche centrali questo dubbio ha avuto un ruolo importante: spiega per esempio perché il 2017, invece che un anno d’inversione di tendenza, sia stato un anno di inattesa liquidità piovuta sui mercati. Sono arrivati 2 trilioni e mezzo dalle cinque principali banche centrali, una cifra monstre che rappresenta un picco senza precedenti.

Nel 2018 si avrà la prima inversione di tendenza, iniziando dalla Fed, che comincerà a drenare in parte i titoli in scadenza. Dieci miliardi al mese per i primi tre mesi, per poi aumentare la quota di altri dieci miliardi al mese ogni trimestre, arrivando così a quaranta miliardi a fine 2018. Alla fine dell’anno sarà così stata drenata liquidità per trecento miliardi. Il 2019 sarà l’anno della svolta anche a livello globale.

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Dunque, l’epoca del sostegno delle banche centrali è finita sotto una buona stella perché il quadro macro è positivo. Resta però un problema di valutazioni: a fronte di una crescita buona con una liquidità abbondante, bond ed equity si sono apprezzati entrambi. Agli indici azionari è bastato che fosse debellata la paura della recessione per raggiungere i massimi, mentre le obbligazioni sono state trainate dalla liquidità e dalla mancanza d’inflazione. Ed è stata proprio la liquidità a creare questa anomalia, presentandosi come un’arma a doppio taglio. Ora se lo scenario mondiale si normalizza e torna l’inflazione, i bond sono a rischio e, se correggono troppo precipitosamente, possono provocare danni a cascata su tutte le asset class. Per dirla in altri termini, la correlazione anomala che ha portato anche quest’anno le valutazioni azionarie e obbligazionarie a correre insieme, potrebbe portare il prossimo anno a un contemporaneo crollo.

Le protezioni, nel frattempo, costano tantissimo perché l’onda anomala della liquidità ha anestetizzato la volatilità.

Come si investe in questo contesto e come si mette al riparo il capitale?

Nello scenario di base, le banche centrali hanno ragione sulle macro e riescono a comunicare correttamente con il mercato. Torna l’inflazione e si assiste a un soft landing, con correzione ordinata delle obbligazioni e una reazione neutra o positiva per le azioni, corroborate dai fondamentali. In portafoglio si prediligono titoli ciclici come le banche e non difensivi, come le utility o le interest sensitive. Sulle obbligazioni potrebbe esserci qualche opportunità tattica, tenendo sempre bassa la duration. Il trade principale è chiaro: se la rimozione della liquidità provoca scossoni si dovrà intervenire tatticamente, ruotando rapidamente il paniere in funzione dello sviluppo degli utili rispetto alla retorica delle banche centrali.

Lo scenario alternativo è altamente più destabilizzante e non cosi improbabile. Potremmo doverci muovere in un nuovo mondo, in un nuovo paradigma in cui alla crescita dell’economia e dell’occupazione segue l’assenza di inflazione. Nella mancanza di inflazione si può leggere un monito per la qualità e la sostenibilità della crescita: la chiave di volta è lo shock tecnologico che potrebbe avere impatti persistenti nella struttura del mercato del lavoro, mettendo fuori gioco lavoratori che verrebbero sostituiti da macchine, generando mancanza di salari e minor crescita. Se lo scenario di rischio prendesse piede, si dovrebbe considerare la possibilità di una nuova recessione.