Illusioni perdute? La geopolitica e i dati macro pesano sui mercati

Olivier De Berranger -

Abbiamo regolarmente segnalato, dall’inizio dell’anno, la dicotomia in atto sui mercati che vede, da un lato, il netto rimbalzo dei grandi indici a seguito della svolta accomodante delle banche centrali e della correzione di alcune sottovalutazioni eccessive e, dall’altro, una serie di dati macroeconomici globali poco entusiasmanti, addirittura depressi.

È bastato il cambio di passo dei governatori centrali perché i mercati nascondessero per più di quattro mesi questi dati poco edificanti, anche se si è trattato di un fragile ottimismo come dimostra l’evidente divario di performance tra stili e settori, dove i titoli difensivi e di crescita visibile sono stati ampiamente favoriti.

Un ottimismo smorzato dalla ripresa delle tensioni commerciali ad opera degli Stati Uniti. Quando hanno riacquisito consapevolezza dei rischi, gli investitori hanno iniziato a soffermarsi sui dati macroeconomici e ad avere paura. Benché di entità tutto sommato ancora moderata sui mercati azionari (i principali indici sono in calo del 5-6% circa rispetto ai punti massimi dell’anno), il dato è palese per il reddito fisso e nel caso, ovviamente, dei tassi a lungo termine. Il decennale americano ha chiuso la settimana al 2,124%, toccando il minimo da settembre 2017, e quello tedesco al -0,213%, vale a dire il minimo storico.

Lo è altrettanto nel caso della struttura delle curve dei tassi di interesse, tra l’altro negli Stati Uniti, dove l’inversione di tendenza è sempre più netta. In un mese, il tasso a tre mesi è passato dal 2,418% al 2,340% e quello a 10 anni dal 2,503% al 2,124%!

Ora, il differenziale tra il tre mesi e il decennale sulla curva USA è un indicatore attentamente monitorato per anticipare le prossime recessioni. A -0,38% si attesta su livelli (raggiunti, ad esempio, nell’estate del 2006 e poi nell’estate del 2007) sinonimi, negli ultimi 20 anni, di una recessione alle porte, ancorché non immediata.

Storicamente sono trascorsi diversi altri trimestri tra il raggiungimento di questi livelli e la recessione vera e propria. Il dato, tuttavia, rimane preoccupante a maggior ragione visto che il divario sembra essere addirittura più ampio* al netto delle ripercussioni del Quantitative Easing e poi del Quantitative Tightening della Fed.

Questo fenomeno, evidente da tempo, ha subito una netta accelerazione nel corso dell’ultima settimana. In effetti, le tensioni commerciali non accennano a diminuire. La Cina starebbe preparando un piano per utilizzare il suo monopolio delle terre rare come arma nei confronti degli Stati Uniti mentre il vicepresidente USA, Mike Pence, ha dichiarato che i dazi sulle importazioni cinesi potrebbero, se necessario, “più che raddoppiare”. Inoltre, Donald Trump ha comunicato di voler assoggettare tutti i prodotti messicani a dazi al 5% accusando il vicino meridionale di lassismo sulla questione dell’immigrazione clandestina. Gli stessi dazi potrebbero salire al 10% a partire dal 1° luglio e aumentare poi del 5% al mese (fino al 25%) in attesa che il problema venga risolto.

A prescindere dai conflitti geopolitici i dati economici continuano però a non essere rassicuranti. È nuovamente peggiorato il PMI manifatturiero cinese, passato da 50,1 a 49,4. Negli Stati Uniti, l’indicatore dell’attività manifatturiera della Fed di Dallas è risultato in netta flessione e ben al di sotto delle stime. In Europa, infine, la crescita del PIL italiano nel primo trimestre è stata deludente con un +0,1% nel trimestre rispetto al +0,2% atteso e, soprattutto, una flessione di -0,1% su base annua (contro il +0,1% atteso).

Sono tutti elementi che possono deporre soltanto a favore dei mercati dei tassi il cui comportamento sta prefigurando uno scenario in netto deterioramento. A questo punto, sembra proprio inevitabile che prosegua l’effetto contagio sui mercati degli asset a rischio. Solo la prospettiva di un intervento delle banche centrali, e in particolare della Fed, impedisce per ora una vera e propria resa. Rimane però da capire chi si arrenderà per primo: la Federal Reserve o gli investitori?

*Ricerca Morgan Stanley


Olivier De Berranger – Chief Investment Officer – La Financière de l’Echiquier