Le multinazionali occidentali pagheranno il prezzo dello scontro Usa-Cina
Nell’ambito della crisi di Hong Kong, il governo giapponese sta sovvenzionando attivamente lo spostamento di produzioni dalla Cina verso il Giappone o altri paesi del sud-est asiatico. La deglobalizzazione industriale ha lo scopo di rallentare la crescita della seconda maggiore economia del mondo e di un sistema politico non accettato dei paesi occidentali. Non conosciamo ancora i costi di questa politica, ma per le aziende multinazionali vediamo un rischio di boicottaggio da parte dei consumatori cinesi. Il sentimento nazionalista cinese potrebbe ulteriormente dare supporto al mercato azionario locale.
Nel 2019 sono iniziate le proteste a Hong Kong dopo il tentativo della Cina di far passare una legge di estradizione nella città stato. La proposta è stata poi ritirata, ma la rivolta si è sempre più allargata. La Cina ha poi deciso di far passare una legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, che punisce anche le attività connesse alla secessione dalla Cina, alla sovversione dell’autorità, al terrorismo e alla collusione con paesi esterni. Hong Kong è considerata una delle economie globali più aperte del mondo, grazie alla libera circolazione del dollaro americano, inoltre, grazie al tasso di cambio agganciato al dollaro Usa (peg), il dollaro di Hong Kong è anche una delle valute più stabili dell’Asia. Gli Stati Uniti, già in guerra commerciale con la Cina da due anni, hanno deciso di revocare lo status speciale di Hong Kong a causa della nuova legge. Inghilterra, Australia, Usa e Taiwan stanno offrendo facilitazioni all’immigrazione per chi vuole lasciare Hong Kong. Per il momento, solo gli Usa hanno tolto lo status speciale della città-stato, ma vista la guerra commerciale in corso, possiamo aspettarci che faranno pressione su altri paesi perché facciano altrettanto.
L’eliminazione dello statuto speciale di Hong Kong avrà certamente un ulteriore impatto sul libero commercio tra i due paesi. Comunque, grazie alla impressionante crescita della Cina negli ultimi anni, il Pil di Hong Kong oggi pesa meno del 3% del Pil cinese”.
Per il momento, sembra che non siano sul tavolo altre misure, come l’eliminazione del supporto al cambio fisso tra dollaro americano e di Hong Kong. Anche perché la Cina avrebbe, con riserve valutarie per oltre tre triliardi di dollari Usa, abbastanza risorse per garantire il peg. Inoltre, una mossa cosi estrema aumenterebbe fortemente l’instabilità finanziaria globale nell’anno elettorale americano. Tuttavia, visto lo smantellamento di importanti accordi globali da parte degli Stati Uniti, è possibile che, in un futuro scenario di maggiore stabilità, il governo cinese possa decidere di agganciare il dollaro di Hong Kong al yuan cinese.
Ci saranno sicuramente ulteriori misure contro la Cina, come, per esempio, sanzioni contro persone fisiche e società considerati a rischio (in particolare nel settore tecnologico) e ulteriori ostacoli alla quotazione di società cinesi sulle borse Usa. La presenza militare americana nel mar Cinese è aumentata notevolmente, con la presenza di due portaerei. Gli Usa hanno anche per la prima volta contestato ufficialmente la linea di frontiera nazionale nel mar Cinese: una frontiera contestata anche da Giappone, Vietnam, Malaysia e Filippine.
in questo contesto, restiamo investiti sui titoli di società domestiche cinesi, quotati a Hong Kong. Vediamo positivo il flusso di investimenti diretti verso i paesi Asean e sovrapesiamo Filippine, Tailandia e Indonesia. Ci aspettiamo inoltre che gli Stati Uniti proseguano una politica di dollaro debole, che offre supporto ai mercati e alle valute dei paesi emergenti. Purtroppo, non si può negare che questo conflitto politico e ideologico tra le due potenze più importanti nel mondo comporta anche un forte aumento dei rischi geopolitici globali. I paesi con una rilevante esposizione commerciale verso la Cina saranno spinti sempre di più a fare una scelta di campo, accettando perdite economiche ed eventuali rischi di instabilità economica e politica interni.