Le grandi aziende tecnologiche sono diventate troppo grandi?
È possibile avere troppo successo, diventare troppo influenti o essere semplicemente troppo grandi? Lo scopriremo nei mesi e negli anni a venire, quando le maggiori società tecnologiche e della tecnologia di consumo al mondo dovranno confrontarsi con una regolamentazione e un controllo antitrust sempre più severi. Da anni i governi stanno tentando di “tirare le briglie” delle Big Tech, ma il 2021 fungerà probabilmente da spartiacque a causa di una serie di pressioni crescenti. Le forze politiche, sociali e di mercato si stanno unendo per passare al setaccio realtà come Alphabet, Amazon, Apple, Facebook, Microsoft e molte altre.
Alcune di queste società hanno svolto un ruolo chiave anche nelle ultime due elezioni presidenziali americane e se si considerano anche gli interessi politici, è facile capire perché le discussioni sul controllo normativo hanno assunto proprio ora una tale importanza. Inoltre, la pandemia di Covid-19 ha accelerato la crescita di molte realtà tecnologiche, aumentandone il potere e l’influenza durante una grave crisi economica globale. Delle 10 aziende statunitensi più importanti per capitalizzazione di mercato, cinque sono tecnologiche o digitali e il loro valore totale di mercato supera i 7.000 miliardi di dollari – un dato cresciuto del 54% solo nell’ultimo anno.
Queste circostanze pongono un enorme rischio a livello normativo e di legislazione antimonopolistica. A ottobre, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha avviato una causa antitrust contro Google, accusando il gigante dei motori di ricerca di ostacolare la concorrenza. Si tratta del più grande caso antitrust da quando il governo aveva preso di mira Microsoft nel 1998. A dicembre, la Federal Trade Commission ha citato in giudizio Facebook per motivi simili: pare infatti che il social media abbia adottato pratiche anticoncorrenziali durante le operazioni di acquisizione di Instagram e WhatsApp.
A rendere questo processo così complicato è in parte il fatto che i Democratici hanno numerose questioni aperte con queste aziende – per lo più relative ad antitrust, privacy e hate speech – mentre i Repubblicani le additano in particolare per una presunta censura delle opinioni conservative.
Ad accelerare ulteriormente il percorso di inasprimento normativo è stato il recente episodio che ha coinvolto un gruppo di investitori retail che si sono organizzati su una chat board su Internet per spingere al rialzo i prezzi delle azioni di GameStop, AMC Entertainment e altre società in difficoltà. Quando le società di brokeraggio e le app di trading hanno imposto dei limiti di negoziazione, alcuni di questi investitori retail hanno subito drastiche perdite. In una rara mossa bipartisan, Repubblicani e Democratici hanno richiesto una serie di udienze al Congresso, che dovrebbero iniziare la prossima settimana.
Valutare i rischi normativi a cui sono esposte le grandi società tecnologiche è un compito complesso, visto che queste realtà operano in segmenti diversi con profili concorrenziali altrettanto differenti – dal retail alla pubblicità alla televisione. Detto questo, siamo del parere che le cause antitrust intentate contro Google e Facebook non siano così gravi e difficilmente comporteranno delle rotture forzate.
Per vincere queste cause, il governo dovrà affrontare una “lunga strada in salita”, come già dimostrano le pressioni di alcuni membri del Congresso per modificare la legge antitrust, di per sé un’ammissione di quanto sia difficile individuare possibili violazioni antitrust basandosi su una giurisprudenza che risale ai 20-30 anni fa. Inoltre, molti dei prodotti forniti da Google e Facebook sono gratuiti, il che indebolisce le classiche argomentazioni antitrust, che valutano proprio il potere di determinazione dei prezzi per stabilire lo status di monopolio.
Se si considerano le azioni dei FAANG come un indicatore del rischio normativo, le due aziende attualmente al centro di controversie legali di alto profilo, Facebook e Alphabet, scambiano a un rapporto prezzo/utili di gran lunga inferiore rispetto, ad esempio, ad Amazon e Netflix. In realtà, la quotazione di Facebook supera di poco il rapporto P/E medio dell’Indice Standard & Poor’s 500 Composite, nonostante il suo rapido tasso di crescita e l’ingente flusso di cassa libero.
Facebook ha riferito un utile del quarto trimestre di 11,2 miliardi di dollari, in ascesa del 52% rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Da parte sua Alphabet – che scambia a un P/E leggermente più alto di Facebook – ha riportato un utile trimestrale di 15,7 miliardi di dollari, in aumento del 40% rispetto allo scorso anno. Queste aziende operano in mercati enormi e in crescita, hanno uno storico pluriennale di aumento del fatturato e sono molto redditizie. Se non ci fossero i rischi normativi, scambierebbero a multipli ancora più elevati.
Nell’improbabile eventualità che una o più di queste società finiscano per crollare, non è assurdo pensare che alcune delle spin-off potrebbero addirittura valere di più da sole che all’interno del gruppo. A volte, infatti, le singole parti valgono più dell’insieme. Un esempio è WhatsApp: acquisito da Facebook nel 2014, al momento non sta guadagnando. Ma come azienda indipendente godrebbe probabilmente di una valutazione elevata, considerata la sua base utenti di oltre 2 miliardi di persone in 180 paesi e l’opportunità di monetizzare il servizio in futuro. Lo stesso si potrebbe dire per Instagram e Facebook Messenger.
Il fatto che tutte queste aziende appartengano a uno stesso gruppo tende a oscurarne il valore individuale. Come già dimostrato da precedenti cause antitrust, ad esempio con la dissoluzione di AT&T o Standard Oil, queste circostanze offrono agli azionisti di lungo termine opportunità piuttosto interessanti.