Rialzo decennali USA, una buona notizia? Non per le azioni

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A fine febbraio, alla vigilia del voto sul terzo piano di sostegno americano, anch’esso di proporzioni inedite, i tassi USA a 10 anni hanno ritrovato i livelli pre-Covid, attestandosi attorno all’1,5%. Buona notizia? Non per le azioni, che sono arretrate subito dopo l’annuncio, in particolare il Nasdaq.

Ma i mercati non dovrebbero essere contenti di questa normalizzazione? Finalmente i tassi remunerano l’investitore e non il debitore. Finalmente un invito a consumare anziché a risparmiare di più!

Certo la trasmissione all’economia reale del rialzo dei tassi lunghi indurrà un inasprimento delle condizioni finanziarie. Tuttavia l’attuale fase del ciclo economico vede una ripartenza delle attività e, in assenza di nuovi lockdown, la dinamica del rimbalzo dovrebbe poter integrare una ripresa moderata dei tassi, anche perché è attesa una lieve risalita dell’inflazione (una reflazione), in particolare proprio negli Stati Uniti grazie al nuovo piano di rilancio. Una reflazione contenuta, che permetterebbe ai tassi reali, quindi ai tassi nominali corretti per l’inflazione, di mantenersi a livelli minimi o addirittura negativi. Finanziariamente sarebbe una situazione ideale: tassi nominali positivi accompagnati da tassi reali ai minimi che favoriscono l’accelerazione dell’attività economica.

È vero che il confine tra una reflazione favorevole e un’inflazione distruttiva è labile. Forse questo spiega lo stress dei mercati. Ma sono ormai più di dieci anni che nei paesi ricchi, in particolare in Giappone ed Europa, l’inflazione è a livelli decisamente bassi. Quindi non si sa in base a quale meccanismo potrebbe esplodere di colpo, visto che nel sistema economico non è cambiato fondamentalmente niente.

La reazione febbrile dei mercati si spiega quindi con altre cause, in particolare il timore che i tassi nominali aumentino bruscamente, soprattutto in un contesto in cui i governi inondano i mercati di debito per assorbire i deficit. Tuttavia le Banche centrali hanno dimostrato a più riprese di avere il totale controllo dei tassi e sicuramente assorbirebbero l’eccesso di offerta obbligazionaria in caso di bisogno, “whatever it takes”, come disse il “salvatore dell’euro”, ora alla guida del governo italiano.

L’ultima spiegazione sarebbe un timore specifico sul futuro dei titoli più cari del listino, in particolare le società leader dell’innovazione digitale o energetica. Il loro prezzo attuale si giustifica solo in base a ipotesi ottimistiche a lungo termine. Un aumento strutturale del costo del capitale inciderebbe significativamente sulle valorizzazioni, rendendole più fragili e determinandone una brusca inversione. TESLA per esempio ha perso il 20% a febbraio, con un movimento esattamente opposto all’andamento dei tassi USA a 10 anni. Tuttavia, tale rischio, non certo trascurabile, si mantiene comunque localizzato e i gestori accorti sapranno separare adeguatamente il grano dalla pula. Senza contare i considerevoli benefici per il resto del sistema economico.

Il punto di equilibrio? Il rialzo dei tassi! (Sorry Elon Musk!) Il mercato azionario nel suo complesso, in piena fase di ripresa economica, dovrebbe poterlo assorbire. E, a termine, il mercato obbligazionario potrebbe tornare a presentare un qualche interesse. Quale altra migliore notizia per la Borsa?