Inflazione, sul rialzo dei tassi braccio di ferro tra banche centrali e mercati

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L’attesa dell’inflazione sembra essersi conclusa all’inizio di maggio, quando la rilevazione dei prezzi al consumo di aprile negli Stati Uniti ha mostrato il balzo di +4,2% rispetto all’anno precedente, molto superiore alle previsioni di un già largo +3,6%. Il riflesso pavloviano dei mercati è stato il nervosi­smo, le borse hanno ceduto sulla paura che la Fed si trovi costretta a intervenire prima che l’economia si scaldi troppo. La scorsa settimana è stata per i listini la peggiore degli ultimi tre mesi. La ripresa economica e i massicci stimoli governativi fanno te­mere che l’inflazione possa sfuggire di mano: sono aumentate le materie prime, i costi dello shipping, i costi dei servizi. Le attese di inflazione sono ai livelli più alti da 15 anni, il tasso di break-even del titolo americano a 5 anni, buon indicatore delle attese di mercato, ha superato 2,7%, il livello più alto dal 2006.

I movimenti anomali dei prezzi nella scorsa primavera alterano la misurazione, dicono alla Fed, è il cosiddetto “effetto base” che, beninteso, è sempre presente ma questa volta l’eccezionalità delle circostanze ne amplifica la rilevanza. Le sospensioni delle attività economiche e commerciali nella pri­mavera 2020 hanno spinto in territorio negativo il movimento dei prezzi poi, con il progressivo ritorno alla normalità, le pressioni sui prezzi si sono allentate e la misurazione sui dodici mesi rileva meccanicamente un risultato fuori scala. Gli economisti della Fed di Dallas hanno provato a isolare l’effetto base prendendo in considerazione l’inflazione media dal febbra­io 2020, quando la pandemia ha cominciato a diffondersi. Il loro calcolo “cattura” il crollo dei prezzi della scorsa primavera, il successivo ripristino dell’attività economica e il recente balzo all’insù che incorpora “la combinazione di riaperture, strozzatu­re nell’offerta e l’aumento dei costi delle materie prime”. Se si considera il periodo eccezionale come singolo episodio, non si registra quella accelerazione meccanica che invece è incorpora­ta nel +4,2%.

Negli Stati Uniti le metriche maggiormente impiegate sono il Consumer Price Index (CPI) e il Personal Consumption Expen­ditures Price Index (PCE): differenti criteri di misurazione danno evidentemente risultati diversi. La misura seguita dalla Fed è l’in­dice dei prezzi “core PCE” ovvero i l’indice della spesa per con­sumi (Personal Consumer Expenditure) depurata dagli elementi volatili degli alimentari e dell’energia. Normalmente il deflatore utilizzato dalla Fed segue il movimento dell’indice dei prezzi al consumo (CPI) ma più in basso.

Agli argomenti sulla temporaneità di un’inflazione sopra il livel­lo desiderato, altri oppongono il protrarsi nel tempo delle stroz­zature nell’offerta: il prezzo del rame riflette la scarsezza di un metallo industriale così importante nella transizione energetica, l’”onshoring” e l’accorciamento delle catene del valore mitigano i rischi di dipendenza in caso di crisi ma aumentano alcuni costi e l’inflazione può rivelarsi uno strumento per abbassare il peso reale del debito senza pagare costosi dazi politici. Il tiro alla fune tra mercati e banche centrali, alla fin fine, è attorno alla temporaneità o permanenza del fenomeno. La Fed continua a vedere il primo aumento dei tassi nel 2023, i mercati non le credono e tirano la corda verso metà 2022. Sarà cruciale il mercato del lavoro negli Stati Uniti, l’adegua­mento delle paghe orarie e gli eventuali effetti incorporati nelle aspettative di inflazione nel lungo termine, nel decennio passato abbiamo tutti visto, banchieri centrali compresi, che l’inflazione è rimasta sopita anche con i più bassi livelli di disoccupazione.

Ai dati di inflazione e occupazione si sono aggiunti quelli sulle vendite al dettaglio, negativi dopo l’efferve­scente +10,7% del mese precedente. Un’escursione così ampia mette in luce almeno due contraddizioni. La prima è diventata familiare, le cattive notizie dal fronte dell’e­conomia reale spingono in avanti la necessità di politiche mone­tarie meno espansive. Se l’economia incespica e vacilla, procura nuovo tempo alle banche centrali, i tassi restano bassi, la liquidi­tà abbondante, gli alcolici continuano a girare. La seconda contraddizione è quella di vendite al dettaglio effer­vescenti in marzo ma negative il mese dopo, con l’affievolimento degli effetti degli stimoli governativi. L’economia americana non balla ancora da sola, sembra aver ancora bisogno di aiuto. I dati sul lavoro e sulle vendite al dettaglio hanno alleggerito il nervosismo delle borse e i movimenti al rialzo dei titoli a dieci anni sono in parte rientrati. È quasi certo che nelle prossime settimane e mesi l’inflazione continuerà ad essere al centro dell’attenzione e dei commenti, potrà crescere ancora a causa dei prezzi delle materie prime, per i colli di bottiglia nell’offerta, per l’effetto degli stimoli monetari.

Non perdiamo di vista le notizie sugli utili societari, l’85% delle società dello S&P 500 ha battuto le attese, i prezzi scontano il successo nelle campagne vaccinali e il ritorno alla normalità. Nonostante la pausa, il tema dominante del prossimo futuro continuerà ad essere la “grande rotazione”, il ritorno del favore ai settori più colpiti dalla pandemia. Dunque, è presto per eccessi di reazione, confermiamo la preferenza alle azioni diversificando con i mercati emergenti e gli investimenti tematici, dall’altra parte dello spettro cerchiamo protezione con strategie decorrelate e con la adattabilità di quelle multiasset flessibili.