Piano di rilancio europeo: finalmente o di già?

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Ci sono voluti dieci mesi perché gli Stati membri dell’Unione Europea (UE) adottassero il piano per la ripresa dell’Europa. Dieci mesi possono sembrare tanti in un contesto economico movimentato ma sono anche pochi a livello UE. Ripercorriamone il percorso a ostacoli.

I negoziati sono iniziati all’insegna dei dissensi tra un’ampia maggioranza di Stati a favore di un finanziamento solidale e i cosiddetti Paesi “frugali”, restii a condividere un debito. L’Ungheria e la Polonia, con il loro rifiuto del meccanismo di condizionalità legato al rispetto dello Stato di diritto, hanno poi dato del filo da torcere all’iniziativa comunitaria. Il progetto, che stava per naufragare, è stato così rimandato ma nel frattempo si profilava un nuovo ostacolo: il rinvio alla Corte costituzionale tedesca. Eppure, alla fine, il cavaliere europeo è riuscito a fare un percorso netto con l’avvenuta ratifica da parte dei parlamenti degli Stati membri. Per la prima volta, l’Unione Europea potrà contrarre debito a nome proprio. I primi assegni saranno disponibili a luglio e andranno a completare le dotazioni di bilancio predisposte a livello nazionale. Nel giro di un anno, l’Unione ha così rafforzato le sue fondamenta con l‘adozione di una forma di solidarietà di bilancio, una decisione molto rapida dal punto di vista della costruzione europea.

Sull’altra sponda dell’Atlantico questo stesso periodo sembra molto lungo però e presenta parecchi punti di debolezza. Molto lungo perché, in meno di sei mesi, ben tre piani ingenti sono stati adottati dall’Amministrazione Biden: l’American Rescue Plan(1.900 miliardi di dollari), l’American Jobs Plan (2.000 miliardi di dollari) e l’American Family Plan (1.800 miliardi di dollari). Come se non bastasse, l’Amministrazione Biden presenterà la sua manovra di bilancio 2022 che dovrebbe, anch’essa, essere di proporzioni storiche, pari a circa 6.000 miliardi di dollari. Messo a confronto, il piano europeo sembra quindi molto debole tenuto conto degli importi in gioco: circa il 27% del PIL negli Stati Uniti contro il 5,6% «soltanto» per il piano comune dell’UE. Gli Stati Uniti sono diventati delle cicale ormai, gli europei delle formiche.

Queste divergenze nelle opzioni di bilancio non si sono finora riflesse sul mercato dei cambi che rimane relativamente calmo e poco direzionale. Il cambio euro/dollaro, ad esempio, è stabile rispetto a gennaio. Ma, alla luce dei livelli abissali che si stanno profilando nel Paese, l’aumento dei disavanzi gemelli – di bilancio e commerciale – negli Stati Uniti depone a favore di un’erosione del dollaro. D’altra parte, il rafforzamento senza precedenti della valuta cinese sta invece a dimostrare che un surplus commerciale e una gestione di bilancio più rigorosa possono favorire l’apprezzamento di una valuta.

Il famoso adagio “Il dollaro è la nostra moneta ma è il vostro problema” potrebbe quindi trasformarsi in “Il dollaro è la nostra moneta e il nostro problema”. Questa volta per gli americani, e non per i loro partner meno propensi a spendere.