Finta protezione

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Nelle ultime settimane le borse hanno subito delle perdite. Ma vale la pena coprire i portafogli azionari al momento? È una domanda che in questo periodo ci pongono in molti. La nostra strategia d’investimento è fortemente orientata ai beni reali ed è comprensibile che le richieste di copertura aumentino quando le quotazioni scendono. In realtà però non è così semplice.

Il nostro focus sulle azioni non è casuale. È dovuto al fatto che l’inflazione si sta allontanando sempre più dal tasso d’interesse. A lungo termine, è quasi impossibile mantenere il potere d’acquisto del proprio patrimonio solo con investimenti nominali, a prescindere che siano in liquidità o in obbligazioni. Gli eventi recenti non cambiano le cose, anzi, il rischio è che il divario tra inflazione e tasso d’interesse si faccia temporaneamente ancora più ampio. Coloro che in questo momento vogliono proteggere il loro portafoglio in modo tattico anche dalle fluttuazioni dei prezzi di proprio quelle azioni, che a lungo termine sono parte della soluzione, corrono un altro rischio, forse ancor più grave.

Tuttavia nemmeno adottare un approccio attendista sarebbe una buona idea. Dipende però sempre da come viene interpretato il concetto di “essere attivi”. L’impulso di reagire ad oscillazioni profonde dei prezzi è nella natura stessa di quasi tutti gli investitori ed è particolarmente accentuato fra quelli istituzionali. Tuttavia, la tanto citata gestione del rischio inizia prima dell’investimento e non deve limitarsi a reazioni frenetiche quando si materializzano rischi di cui non si era tenuto conto o che si credevano improbabili.

Gli investitori devono stabilire con chiarezza da cosa esattamente vogliono proteggersi. Vogliono solo evitare le fluttuazioni dei prezzi perché li agitano? Allora la loro strategia d’investimento era forse un po’ troppo audace sin dall’inizio. Oppure si è creata una situazione tale da compromettere il profilo di rischio e rendimento di un investimento o di ampie parti del portafoglio? In tal caso bisogna ovviamente reagire – e nel modo più coerente possibile.

Le fluttuazioni dei prezzi sono il conto da pagare in un mondo senza interessi e con l’inflazione in aumento se si vuole per lo meno conservare il potere d’acquisto di un patrimonio in un’ottica di lungo termine. Va poi sfatata un’idea molto diffusa ma fondamentalmente errata: le azioni non sono tutte uguali! La quota azionaria di per sé non basta a stabilire una generica necessità di copertura, figuriamoci la relativa portata. La domanda da porsi non è: “A quanto ammonta la componente azionaria?”, ma piuttosto: “Quali società ci sono in portafoglio?”. Gli investitori possono fare danni anche solo con una quota di azioni del 20% o viceversa possono creare un portafoglio relativamente stabile con l’80%.

Europa o Stati Uniti?

Limitare a prescindere le partecipazioni in società europee è un approccio troppo generico e si limita a considerare la “quantità”. Bisogna comunque ammettere che il mercato azionario statunitense non solo è molto ampio, ma rispetto a quello europeo presenta anche una componente ciclica di gran lunga inferiore, che lo rende più difensivo. Inoltre, i tassi di crescita degli Stati Uniti in aggregato sono più stabili ed elevati. Questo vale chiaramente anche per gli ultimi 20 anni, quando l’Europa in generale, e la Germania in particolare, hanno beneficiato della globalizzazione. D’altro canto, questa dinamica ha causato un aumento significativo delle dipendenze negli ultimi decenni. Non solo in termini di profitto, ma anche nelle catene di fornitura. Se ora tali dipendenze vengono messe in discussione, è ovvio che ci saranno ripercussioni sulle valutazioni. Ma questa non è una novità delle ultime settimane.

Un elevato peso in dollari US nel portafoglio può fungere da copertura fino a un certo punto. In Germania in particolare, ad esempio, si parla ancora molto di “rischio di cambio”. La situazione di partenza descritta prima, il maggiore spazio di manovra della FED e il fatto che il dollaro americano sia particolarmente richiesto in tempi di crisi si traducono quasi automaticamente in una maggiore stabilità per un portafoglio europeo con un’alta percentuale di investimenti in dollari US. Non solo attraverso la componente azionaria, ma anche con quella valutaria. Lo stesso vale naturalmente anche nel caso di una ripresa. Può capitare che la stabilità di ieri, domani possa essere percepita come un freno – ennesima riprova che le coperture non funzionano in una sola direzione.

Tornando alle coperture azionarie, non mancano le possibilità per chi vorrebbe agire in modo tattico. Il “come” però è un aspetto tutt’altro che banale. Le “opzioni” sono costose e c’è il rischio di subire perdite anche se succede poco o niente. Per quanto riguarda i “futures” bisogna capire qual è il cosiddetto “underlying”, cioè il mercato azionario che funge da sottostante. Per un portafoglio che contiene molte azioni tedesche sarebbe opportuno scegliere un Dax Future. Al contrario, per un portafoglio azionario internazionale, una consistente posizione corta sul Dax diventerebbe controproducente. Nel corso degli anni ho visto molti investitori affrettarsi a coprire i portafogli contro l’apocalisse, salvo poi rendersi conto – loro malgrado troppo tardi – che a quel punto il più grosso rischio per i loro investimenti era che il mondo continuasse a girare.

Vale anche per la forma più semplice di copertura: la vendita. A maggior ragione in un contesto di rendimenti reali negativi. Quando vale il detto: “la tattica si mangia la strategia”, gli investitori si rifugiano nella liquidità. A quel punto sembra che si rasserenino – almeno nell’immediato e finché il mercato è in calo. Ma gli deve andare bene due volte: infatti non devono solo vendere; prima o poi dovranno tornare ad assumersi il presunto rischio. Altrimenti, come si suol dire, il valore nominale del loro denaro si scioglierà come neve al sole.